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NON E’ SUCCESSO NIENTE – Appunti sparsi a margine di un processo

lunedi 4 dicembre 2023 // Comunicato Soa il Molino //

NON È SUCCESSO NIENTEAppunti sparsi a margine di un processo.

Quando si tratta di neutralizzare i corpi indomabili la polizia agisce con disprezzo, mette i guanti e si
tappa il naso. Quando ingaggia un corpo a corpo, la polizia perde ogni ragione e l’empatia cede il posto alla follia virile e castratrice e non esita a torcere il corpo straniero fino a quando, in un ultimo sospiro, supplicandolo di lasciarlo vivere, lo stesso finisce per rompersi.
(Ramata Dieng, sorella di Lamine Dieng, ucciso dalla polizia il 17 giugno 2007 a Parigi)

Si è tenuto, 8 anni dopo i fatti, il processo ai due poliziotti accusati di violenze e furto ai danni di un ragazzo pakistano. Mercoledì 15 novembre, un mese dopo, il verdetto: assoluzione dei tutori dell’ordine.

La sua testimonianza non è credibile. Si confonde, non è chiaro, cambia versione.

Dopo anni di bugie, accuse, insabbiamenti, depistaggi, omissioni, tre procuratori generali (Noseda,
Perugini e Pagani), ricorsi e il verdetto del tribunale federale che riapre il caso e porta i due agenti a processo, la sentenza del giudice Quattropani chiude – apparentemente – il caso.

Non è successo niente!

È così fratello… la verità non è uguale da tutte le parti… otto anni ad aspettare e poi tschac tschac tutto passato e non resta più niente… solo orecchio rotto che fa pfiiiiiiii…

O anche danni collaterali. Ma che non sia andata come la raccontano è più che un legittimo dubbio. Poco importano le imprecisioni su chi era davanti e chi dietro, se i calci erano sopra o sotto, se erano pugni o sberle, chi teneva lo spray per pulire il sangue e se gli sbirri l’hanno accompagnato o meno al treno.

È lo stesso giudice a confermarlo, parlando di incompletezza del lavoro svolto, tra irregolarità e
omissioni (candidamente ammesse pure dalla difesa) fino ad arrivare alla totale copertura dei vertici della polizia comunale (Torrente) e del municipio dell’allora sindaco Borradori.

Vertici che 8 anni dopo si ripetono: prima ritardando e poi mettendo i sigilli ai verbali senza omissis
degli incontri dello Stato Maggiore, di un altro dossier: quello dello sgombero e dell’abbattimento dell’ex macello. Un ripetersi omertoso in cui lo Stato pur di nascondere il proprio agire al di fuori della tanto decantata legalità, pratica senza remora alcuna l’occultazione di prove e documenti.
Nel caso del venditore di rose è infatti davvero credibile la versione per la quale un ragazzo, che non conosceva quasi per niente la realtà locale, s’inventi d’essere stato menato a sangue da due poliziotti?
Tanto che gli stessi poliziotti una volta riconosciuti in giro dal ragazzo risultano essere, guarda caso, proprio gli stessi che quella mattina erano di pattuglia nei pressi della stazione. E, altro caso, quella mattina, al cambio della stazione, veniva cambiata esattamente la somma poi sottratta. E addirittura i locali dove veniva picchiato, nonostante non ci fosse mai stato, venivano descritti perfettamente.

Solo “casualità”? Fantasia? Invenzione? E se proprio, ma perché aspettare due anni prima d’interrogare i due agenti, lasciando loro tutto il tempo per mettersi d’accordo? E se non c’era niente da nascondere perché non fornire subito la geolocalizzazione della vettura ed evitare la minaccia di perquisizione della stessa polizia nei suoi stessi locali? E che bisogno ha avuto Borradori d’intervenire nella discussione con
una presa di posizione piena di luoghi comuni, infamate e razzismo, per scagionare i due?

La credibilità – evocata pure con il paragone delle donne che hanno subito violenza (sic!) dall’avvocata della difesa Galliani – assume i contorni della favoletta. Proponiamo un test a giudice, avvocati della difesa, procuratore generale e accusati: vi offriamo una sessione di botte in un contesto e con codici culturali sconosciuti e in una lingua incomprensibile. E poi, sull’arco di 8 anni, tra privazioni, vessazioni, pressioni e minacce, ricostruite con CRE-DI-BI-LI-TÀ LI-NE-A-RE la versione dei fatti. Senza chiaramente la possibilità di ricorrere ai “non ricordo” usati a oltranza dai due sbirri indagati. Che ricordano di aver preso il caffè con il comandante Torrente (oh toh…) ma non se quel giorno transitavano dalla stazione nonostante la geolocalizzazione della vettura lo certificasse.

Altro che credibilità! Queste sono prassi abituali – botte, violenze, soprusi – segnalate costantemente da chi vive ai margini, invisibile, senza nessuna “protezione”. Prassi che rimangono nel limbo, impunite e senza nessuna “giustizia”. Il caso Nzoy a Losanna ne è uno dei tristi esempi. E tra le stazioni di Chiasso e Lugano la lista è lunga di situazioni analoghe, anche alla luce del sole, operate dalla locale polizia.

E allora parlare di “giustizia” non è solo capire cosa sia successo in quel vuoto di tempo – del tutto
sufficiente per prelevare una persona, portarla in una stanza, lontani da occhi indiscreti, levargli i soldi, insultarla, bastonarla a sangue e rimetterla su un treno – in cui la vettura è stata ferma in stazione.

Parlare di giustizia vuol dire permettere di ricostruire una dignità. Vuol dire essere guardati e ascoltati. Vuol dire piangere di fronte ai carnefici. Vuol dire cambiare il punto di vista della storia, riferendosi a
quella degli oppressi, delle sfruttate, dei colonizzati, dei dominati. Dove le lacrime che scorrono sono una sorta di purificazione del trauma. Non un segno di debolezza, ma linfa per scacciare la paura, la sottomissione, la vendetta, talvolta il passato.

Quel “non è successo niente” non fa invece che confermare l’abituale narrazione del potere che nega razzismo strutturale e violenza sistemica. Narrazione che impone che “lo straniero” rimanga sottomesso.
Produttivo e obbediente ma zitto e con la testa bassa. E se la testa si permette di rialzarla, scacciando la
paura, affrontando pubblicamente gli agenti per le strade di Lugano come fatto dal venditore di rose o
ribellandosi a condizioni di vita indegne come successo a Chiasso all’interno dei Centri, ecco che si
grida allo scandalo, all’allarme insicurezza, al pericolo pubblico. Omettendo completamente che
violenze e abusi di polizia ai danni di persone razializzate sono una prassi sistematica e ripetuta.

Dirsi stupiti che tali fatti avvengano o negarli, come fatto dal giudice nella sentenza, rimanda verso
l’abisso incolmabile tra chi vive anni luce dai soprusi e chi queste violenze le vive quotidianamente. Il
“non è successo niente” rimanda a quell’arroganza fatta di superiorità morale di chi si chiede “come mai il ragazzo picchiato non si sia recato la sera stessa al pronto soccorso e a fare denuncia.

Se mi picchia qualcuno vada dalla polizia ma se mi picchia la polizia da chi vado?

In tempi cupi precedenti la tormenta, la risposta esprime la beffa e ci ricorda lo stato delle cose nel quale viviamo: un razzismo diffuso in cui si vuole pulire il corpo sociale di quello che si giudica impuro.

Un sistema devastato perfettamente riassumibile nel dramma della popolazione palestinese martoriata, tra abbandono e indifferenza, da oltre 75 anni di colonialismo e razzismo israeliano e occidentale.

Un sistema putrido perfettamente riassumibile nel dramma del mediterraneo e alle frontiere della
fortezza europa dove, quotidianamente esseri umani in transito perdono la vita e i sogni scomparendo
nell’abbandono e nell’indifferenza.

Alla sentenza del giudice, in data 28.11.2023, è stato fatto appello dall’avvocato del ragazzo pakistano.

Senza giustizia nessuna pace.
Libertà e dignità in un mondo senza muri e confini.
Palestina Libera!


SOA il Molino