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IMPERIALISMO SVIZZERO#1 – RAFFINERIA SVIZZERA DI ORO PSICOTROPO

Articolo del 1.04.24 – Tradotto da: Renverse.co

Tema del mese: Imperialismo svizzero#1 – Raffineria svizzera di oro psicotropo

Questo mese, in concomitanza con il contro-vertice sulle materie prime organizzato da STOP-PILLAGE il 6 e il 7 aprile 2024, renverse.co si propone di analizzare l’imperialismo svizzero. Attraversando questa tematica avrete modo di scoprire come la Svizzera sia diventata una delle principali potenze imperialiste del mondo e perché consapevolezza di questo fenomeno sia così scarsa. Il fatto che la Svizzera non abbia mai posseduto delle vere e proprie colonie e che la sua borghesia industriale e bancaria si sia mossa per molto tempo nascondendosi dietro al velo della neutralità politica, ha permesso al Paese di mantenere la sua immagine di “piccolo Stato svizzero”, all’ombra del quale prosperano evasione fiscale, corruzione e altre frodi.

Pur non basandosi sull’impiego della forza militare, ma piuttosto sulle politiche umanitarie, l’espansione economica della Svizzera oltre i confini nazionali continua a supportare le ideologie razziste, suprematiste e neocoloniali proprie dell’imperialismo contemporaneo.

Come primo testo sul tema di questo mese, vi proponiamo una traduzione inedita dell’articolo di Rohit Jain:

Raffineria svizzera di oro psicotropo. Esplorazioni etnografiche dell’amnesia postcoloniale e oltre…

Pubblicato in: knowbotiq & Nina Bandi (ed.): Swiss Psychotropic Gold, Basilea: Christian Merian Verlag, 1126 – 1665 / https://swisspsygold.knowbotiq.net/

Percorrere il Museo dell’Oro significa acquisire una vaga consapevolezza del ruolo che l’oro ha ricoperto per millenni in quanto fondamento delle valute di tutto il mondo, attraverso miti e leggende.  Tuttavia, una storia resta nell’ombra. Il museo trascura il fatto che, per oltre tre secoli di occupazione spagnola, la colonia è stata arricchita dal lavoro degli schiavi africani nelle miniere d’oro. Fu proprio l’oro, insieme all’argento proveniente dal Messico e dal Perù, a innescare il decollo del capitalismo in Europa, la sua accumulazione primitiva. (Taussig 2004:x)

  “L’oro fa impazzire l’uomo perché il desiderio che esso suscita non conosce limiti; porta con sé un pericolo che deve essere confinato entro le mura di favole e superstizioni” (Taussig 2004:5).

Nel suo libro “My Cocaine Museum” (2004) [1], l’antropologo Michael Taussig cerca di trovare un linguaggio, sia etnografico che poetico, per comprendere ed esprimere come la Colombia contemporanea sia ancora perseguitata dalla violenta storia dell’oro. Prendendo spunto dalla mostra allestita al Museo dell’Oro di Bogotà, il progetto si propone di riflettere sulla violenza del passato e di mettere in luce ciò che il capitalismo coloniale ha inflitto all’America Latina. Attraverso le sofferenze e i sogni quotidiani dei minatori, le mitologie locali e le foreste tropicali emerge una descrizione dettagliata di come quella violenza e quell’avidità intacchino ancora oggi le ecologie politiche della Colombia. L’oro è sempre stato invischiato in un metabolismo translocale di estrazione, commercio e desiderio di ricchezza.

In che modo l’oro è mitologicamente, moralmente, economicamente e affettivamente coinvolto in contesti spazio-temporali diversi e al polo opposto della gerarchia del mondo postcoloniale?

Nel 2017 sono state importate in Svizzera 2.761 tonnellate di oro grezzo da raffinare. Ciò rappresenta il 65% della domanda globale. Negli anni ’70, la Svizzera ha commercializzato e raffinato fino al 75% dell’oro del Sudafrica, salvando il regime dell’apartheid da una crisi economica e quindi politica ed esistenziale. Tornando indietro nel tempo, la Svizzera è stata il principale centro di smistamento dell’oro durante la Seconda guerra mondiale, acquistando e commerciando oltre 2.000 tonnellate d’oro per conto della Germania nazista e degli Alleati.

La Svizzera, fiera in tempi di prosperità e discreta in tempi di incertezza geopolitica, si è trasformata in uno spazio politico ed economico dove vengono neutralizzate le origini dell’oro. Questo seducente minerale possiede la straordinaria qualità di poter essere fuso e di assumere varie forme: lingotti, monete, gioielli e persino “medicamenti”. In Svizzera, l’oro viene sottoposto a un processo di purificazione chimica – o meglio, alchemica – per separarlo dalla sua – spesso violenta – storia e trasformarlo da un lato in un agente effimero di potere, prestigio e purezza materiale e dell’altro in un concentrato di ricchezza.

Esaminare il trattamento riservato all’oro nella scena pubblica svizzera presenta due sfide etnografiche e politiche:

La prima è di portata globale e mette in luce l’estetica politica di un centro di transito che sembra essere fondamentale per il funzionamento del metabolismo globale dell’oro – una rete transnazionale di investimenti, estrazione, trasporto, commercio, speculazione, raffinazione, consumo e riciclaggio. Mentre l’estrazione e il trasporto dell’oro sono faticosi, tossici, rozzi e violenti, gli investimenti e il commercio avvengono in stanze d’albergo o uffici anonimi, in distretti commerciali e attraverso reti virtuali.  Mentre i gioielli d’oro vengono indossati con eleganza per ostentare opulenza, i lingotti e le riserve d’oro sono discretamente custoditi in spazi e caveaux estremamente sicuri. Come vengono trasformati e negoziati materiali, immagini, affetti, moralità, esperienze e relazioni sociali all’interno di questo sfaccettato metabolismo globale dell’oro?

La seconda sfida riguarda la “produzione di località” e si focalizza sul funzionamento della collettività svizzera e sull’amnesia postcoloniale che ne permea l’atmosfera. Per secoli, la Svizzera è stata sistematicamente coinvolta in imprese coloniali e di sfruttamento globale, che hanno alimentato il suo progetto di modernità, la sua ricchezza e la sua immagine di supremazia. Dai servizi dei mercenari all’inizio dell’era moderna al finanziamento della schiavitù, al commercio coloniale e post-coloniale di materie prime e alla finanza globale, la Svizzera ha sempre adottato una posizione di complicità (post-coloniale) per trarre benefici economici, negando al contempo le sue responsabilità – e ogni possibile riparazione politica. Un’amnesia pubblica intrinsecamente legata alla mitologia svizzera di neutralità, rettitudine, purezza e disciplina economica, che sembra tuttavia perpetuare un ciclo di violenza. Come viene implementata e (ri)prodotta una macchina mitologica così potente da un punto di vista estetico, morale ed emotivo?

Negli ultimi decenni, ONG, commissioni storiche e scientifiche e movimenti politici hanno indagato sul coinvolgimento della Svizzera nel commercio globale dell’oro e ne hanno denunciato le fondamenta violente.

Eppure, sembra che tale sapere svanisca nell’ambito del dibattito pubblico. È possibile che tale conoscenza non riesca a far fronte alla cosiddetta amnesia a causa del potere emotivo, morale ed estetico dell’oblio collettivo? In tal caso, l’enigma postcoloniale che ci troviamo ad affrontare non risiede nella mancanza di consapevolezza critica o di volontà politica. La questione è piuttosto capire come possiamo essere influenzati e messi in moto politicamente ed eticamente da tale consapevolezza.

È in questo frangente che intendiamo intervenire con le nostre esplorazioni etnografiche nella “Raffineria svizzera di oro psicotropo”. L’ipotesi è che la struttura emotiva, morale ed estetica della comunità svizzera costituisca un importante agente di amnesia, violenza e sofferenza. La Svizzera funge da superficie ben levigata, lucente, pulita e opaca di neutralità. La sua violenza è diversa da quella di altre città come Città del Messico, Mumbai o San Pietroburgo, o dal Museo dell’Oro di Bogotà. Se i cittadini di “Brave New World” di Aldous Huxley subiscono l’influenza del Soma, la comunità svizzera soggiace a quella dell’oro psicoattivo, che permea la sua aria, i suoi spazi e i corpi che la abitano.

Quali sono gli elementi necessari al mantenimento di una tale manifestazione pubblica di ricchezza, autocompiacimento e discrezione, pur essendo consapevoli (almeno inconsciamente) della storia di violenza che vi si cela dietro? Quali intrecci storici sono visibili e quali sono occultati in questo spazio mitopoietico? Quali esperienze di violenza, dolore o colpa sono riconosciute e affrontate, e quali sono represse o ignorate? Che tipo di assetto culturale e psicologico permette di sopprimere le “storie minori” indesiderate? Cosa troveremo se riusciremo a penetrare la superficie ermetica dell’amnesia? Quali memorie postcoloniali, contro-mitologie e utopie si celano negli archivi ancora inesplorati, pronte ad essere svelate?

I) L’Oro invisibile: stabilità, crisi e ricchezza

Valcambi SA, una delle principali raffinerie d’oro del Paese, si trova al confine italo-svizzero. Sottoposta a un’intensa sorveglianza, è situata lontano dagli occhi del pubblico, tra i contrafforti delle Alpi meridionali e i laghi. È stata fondata nel 1961, quando le banche svizzere stavano iniziando a stabilire buone relazioni con il Sudafrica, il più grande esportatore d’oro del mondo.

La posizione economica del Sudafrica era direttamente legata alle norme razziste in materia di lavoro, alla coercizione e allo sfruttamento fisico dei corpi neri sotto il regime dell’apartheid. Vennero create delle entità territoriali separate intorno alle miniere di diamanti e d’oro al fine di accumulare ricchezza e potere a profitto dell’élite bianca. Nel 1968, con una mossa economica astuta, la Svizzera istituì a Zurigo un pool per il commercio dell’oro, basato su un accordo esclusivo con il Sudafrica (vedi l’intervista a Jakob Tanner in questo volume [2]). Negli anni successivi, la Svizzera commerciò e raffinò fino al 75% dell’oro estratto annualmente dal Sudafrica. Il governo svizzero supportò quindi il regime dell’apartheid in Sudafrica, fornendo un sostegno attraverso l’importazione dell’oro, esportando armi, compilando statistiche e mantenendo relazioni diplomatiche proattive. Questa collaborazione ha permesso alla Svizzera di consolidare le sue infrastrutture, i suoi regolamenti e le sue reti come principale centro di raffinazione e commercio dell’oro al mondo. Negli anni Ottanta, sotto la pressione del movimento globale anti-apartheid, gli attivisti svizzeri riuscirono finalmente a far luce sulle relazioni tra Svizzera e Sudafrica. Grazie a queste rivelazioni, le politiche svizzere furono apertamente discusse e criticate. Tuttavia, nel 2003, proprio mentre un progetto di ricerca pubblica stava avviando un’indagine sistematica su queste relazioni, il governo ha improvvisamente bloccato l’accesso agli archivi quando una ONG sudafricana ha chiesto un risarcimento alla Svizzera di fronte ai tribunali statunitensi. [3]

Tutti questi sforzi per occultare la storia sono forse dovuti al timore di dover pagare risarcimenti, come nel caso dello scandalo dei fondi non identificabili nei conti bancari svizzeri appartenenti a vittime ebree della Shoah? Lo scandalo è emerso nel 1994 a seguito di una denuncia presentata dai tribunali statunitensi contro le banche svizzere, che ha messo in luce il controverso ruolo della Svizzera in quanto polo centrale delle transazioni d’oro con la Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale. La Commissione Bergier, incaricata nel 1996 dal governo svizzero di indagare sulla vicenda, ha scoperto che la Banca Nazionale Svizzera aveva acquistato 2000 tonnellate d’oro sottratte dalla Germania nazista a individui e banche dei Paesi che aveva invaso. [4] 2000 tonnellate a cui si aggiunge l’oro rubato ai prigionieri ebrei e ad altre persone uccise nei campi di sterminio. La rabbia pubblica scatenata in risposta a queste rivelazioni si è manifestata in attacchi antisemiti e anti-intellettuali. Nel 1998, al culmine di questa vicenda, le banche svizzere hanno accettato di pagare 1,25 miliardi di dollari in restituzione alle vittime dell’Olocausto. [5] . Questi scandali hanno infranto il guscio dell’amnesia. L’oro, fino ad allora invisibile, è fuoriuscito dagli archivi e dalle banche e si è riversato nella sfera pubblica svizzera, rendendo visibile la storia della violenza e della colpevolezza sepolte sotto lo strato luccicante della neutralità, dell’onestà e dell’innocenza.

Nel 2004, un gruppo di politici nazionalisti – molti dei quali erano stati coinvolti nel mantenimento delle “buone relazioni” con il regime dell’apartheid – propose un referendum per garantire che una parte considerevole delle riserve monetarie svizzere fosse detenuta in oro. Questa proposta non aveva alcun senso dal punto di vista economico, dato che il sistema aureo era stato abolito negli anni Settanta. Eppure, sembra che in questi ambienti l’oro sia ancora simbolo di indipendenza, stabilità e ricchezza. Si tratta di un mito sviluppatosi insieme al segreto bancario svizzero negli anni Trenta, quando la Svizzera ha rafforzato legalmente la sua posizione di rifugio per la fuga di capitali e l’evasione fiscale su scala globale. Nel contesto dell’economia mondiale, l’oro svizzero simboleggiava fiducia e stabilità, sia all’esterno che all’interno. L’immagine dell’oro nei caveaux alpini, una fortezza che sfida le turbolenze geopolitiche, è ancora attuale.

Questo referendum anacronistico è stato portato avanti, ma senza successo. Tuttavia, ha messo in evidenza il fatto che l’oro, oltre a essere un importante modello commerciale per la Svizzera, alimenta altresì la mitologia nazionale della stabilità e della ricchezza.

II) L’oro visibile: la grammatica morale dell’etica protestante, l’illuminismo e la colpa

Benché la maggior parte dell’oro venga ripulito e sepolto nelle raffinerie, nei trasportatori d’oro, nei caveaux e nei depositi della Banca Nazionale Svizzera (in patria e all’estero), nei negozi di Zurigo, Lucerna e Ginevra si trovano ancora alcune fiere ed esposizioni d’oro che vendono gioielli e orologi svizzeri di alta gamma e altri articoli di lusso. Gli Ugonotti hanno introdotto l’orologeria in Svizzera nel XVII secolo. Da allora, questo settore industriale è diventato parte integrante della sua economia e della sua mitologia dell’industrializzazione, arrivando a rappresentare fino al tre per cento del prodotto nazionale lordo.

Eppure, tra il pubblico borghese e piccolo borghese, lo sfoggio e il lusso vengono disprezzati e associati all’alta borghesia residente sulla “Goldcoast” del lago di Zurigo, o ai turisti e ai nuovi ricchi di Russia, Cina e India.

Il consumo di oro può anche rappresentare una proiezione nei confronti dell’ ‘”altro” razializzato, accompagnata da un senso di supremazia morale e di gelosia. L’atteggiamento passivo-aggressivo che permea l’immaginario svizzero dell’oro è diventato virulento negli anni ’80, quando i Tamil dello Sri Lanka sono giunti come primo grande gruppo di rifugiati non bianchi. I media e l’opinione pubblica si indignarono per il fatto che queste persone in cerca di aiuto indossavano gioielli d’oro in pubblico. Questa ostentazione di “lusso” sconvolse l’ordine post-coloniale tra la ricca e benevola Svizzera e i poveri e bisognosi rifugiati. Tale comportamento risultò particolarmente irritante per molti membri della classe media svizzera, che non potevano permettersi un consumo così vistoso di oro e che, anche se avessero potuto, probabilmente non lo avrebbero fatto a causa della loro etica protestante profondamente interiorizzata.

Sebbene la maggior parte della classe media svizzera tragga vantaggio economico dal commercio post-coloniale di materie prime, quest’ultima non può godere di tale gratificazione in modo diretto. Tuttavia, l’oro, simbolo di ricchezza e stabilità, è psicoattivamente presente nell’aria. L’oro non si mostra, si possiede. E anche se non ci si può permettere di possederlo, si può comunque annusare e respirare come membro della nazione svizzera, e con esso la supremazia, l’innocenza e la rettitudine.

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Un rappresentante di una ONG entra nella stanza. Sicuro di sé, rilassato e di fretta, posa un libro sul tavolo.

“Non so come posso aiutarla. È tutto in questo libro”. È coautore del libro “Rohstoff” ( Raw Material/ Commodity), pubblicato nel 2012 dall’ONG (oggi: Public Eye), che ha suscitato un nuovo dibattito sul commercio svizzero di materie prime. [6] ” Sappiamo troppo poco di un’attività che contribuisce al PIL quanto le industrie meccaniche (cioè il quattro per cento)’’. I commercianti ginevrini lavorano in una zona d’ombra, che è moralmente ambigua” (Erklärung von Bern 2012: 19).

Il commercio di materie prime, secondo il libro, non è solo ecologicamente ed economicamente disastroso per le popolazioni coinvolte nell’estrazione, ma è anche dannoso per l’immagine della Svizzera – e quindi una “bomba a orologeria”. Con questa affermazione, gli autori alludono al danno politico ed economico subito in seguito alla violazione del segreto bancario svizzero da parte delle autorità fiscali statunitensi nel 2014 e alla capitolazione della Svizzera dopo 80 anni di guerra economica. Quindi, affinché il suo modello di crescita continui ad avere successo, la Svizzera dovrebbe agire in conformità ai diritti umani, gli standard morali e ai propri interessi e ridimensionare la propria avidità.

Questa argomentazione, fa parte di un diffuso discorso di autocritica delle ONG, che affonda le sue radici nel cosiddetto Terzo Mondo e nel movimento anti-apartheid, ed è accompagnato da una particolare politica delle emozioni e da una precisa grammatica morale. Il manifesto di una campagna condotta da Brot für Alle e Action de Carême contro l’estrazione dell’oro mostra la scollatura di una donna bianca in abito da sera nero, che indossa una pesante collana d’oro. Una lente d’ingrandimento permette allo spettatore di zoomare su un’altra dimensione, dove delle persone nere corrono a perdifiato, apparentemente in fuga dai macchinari caterpillars. Questa attraente immagine è ben rappresentata dal testo che appare sotto: “Non è tutto oro ciò che luccica. La corsa all’oro sta allontanando le famiglie contadine dalla loro terra. Siate consapevoli e agite”. (Vedi immagine copertina articolo).

La lente d’ingrandimento, cioè l’intervento ottico e intellettuale della ONG, dovrebbe sensibilizzare le persone circa il legame post-coloniale tra la produzione e il consumo di oro. Insinua la verità sotto la superficie della ricchezza, della neutralità e della correttezza. La drammaticità della grammatica visiva e testuale della campagna mette in luce il nesso causale tra la ricchezza svizzera e la povertà africana, aprendo un abisso morale di colpa, ipocrisia, decadenza e opportunismo. In questa politica di rappresentazione pubblica, la conoscenza trionfa sull’ignoranza e la luce sull’oscurità. La coscienza sporca è la moneta emotiva che accompagna questa narrazione, e colma il divario geografico, storico, razziale ed economico creato dalla messa in scena di una tragedia postcoloniale e razziale.

Gli attivisti delle ONG sono consapevoli delle ambivalenze legate all’utilizzo della strategia della “coscienza sporca” nella loro comunicazione pubblica. Per loro, si trattava di una strategia per attirare l’attenzione, il sostegno e i fondi necessari a promuovere il referendum del 2020 sulla responsabilità delle multinazionali svizzere nel commercio di materie prime. L’obiettivo era quello di imporre alle aziende con sede in Svizzera il rispetto dei diritti umani e degli standard ecologici.

Parallelamente al dibattito delle ONG, l’oro svizzero è anche oggetto di discussioni accademiche. Abbiamo parlato con uno storico ed esperto del ruolo dell’oro nell’economia svizzera. È stato membro della Commissione Bergier, che ha indagato sulle relazioni della Svizzera con la Germania nazista, ed è anche intervenuto nel dibattito sulle banche svizzere coinvolte nel commercio di oro con il Sudafrica durante l’apartheid. Seduto nel suo ufficio, spiega in modo eloquente e meticoloso che l’oro non è solo un modello di business, ma fa parte della mitologia politica svizzera. Decenni di critiche e indagini sull’oro svizzero, sia accademiche che pubbliche, non lo hanno stancato. Non è frustrante che la conoscenza accademica e l’impegno intellettuale non siano in grado di rimediare all’amnesia pubblica? Il rapporto della Commissione Bergier – il progetto più importante nel tentativo di comprendere la storia della Svizzera dopo la Seconda guerra mondiale – non è forse stato quasi dimenticato, come se non fosse mai stato scritto? L’autore è d’accordo, ma rimane ostinatamente fiducioso rispetto al potere della conoscenza, all’importanza di far emergere l’invisibile, di denunciare le mancanze morali della Svizzera e di assumersi le proprie responsabilità.

Oltre al discorso delle ONG e degli accademici, questa esplorazione artistica etnografica è servita a stabilire un ulteriore legame tra la visibilità dell’oro e l’assunzione di responsabilità. Un orafo di un quartiere benestante di Berna ha creato un sistema certificato di approvvigionamento di oro equo e solidale per la Svizzera, a cui attinge per produrre i suoi gioielli. Quando l’orafo si è reso conto che il metallo prezioso che utilizzava era il risultato di estrazioni violente e di guerre, è rimasto scioccato e ha deciso di assumersi la sua responsabilità. Ha unito le forze con altri orafi internazionali per creare una catena di approvvigionamento di oro equo e solidale per la Svizzera, che, ironia della sorte, viene raffinato dalle aziende citate in precedenza nel saggio. Combinando il suo acume professionale con un’etica protestante, l’orafo ha trovato una soluzione pratica al suo dilemma personale e al dilemma morale della Svizzera riguardo all’ ‘”oro sporco”, stabilendo allo stesso tempo un modello commerciale solido. L’oro del commercio equo e solidale permetterebbe quindi di consumare l’oro in modo modesto ed equo.

Mentre le ONG si servono della spettacolarizzazione e della coscienza sporca come merce di scambio per incitare il pubblico ad opporsi all’opportunismo commerciale svizzero, lo storico incorpora un messaggio liberale e intellettuale di illuminazione e informazione critica. Quanto all’orafo, egli ricorre all’etica puritana dell’artigianato per offrire ai suoi clienti una soluzione al dilemma morale. Tutti vogliono rendere visibile la storia di violenza materializzata nell’oro svizzero e offrono soluzioni più o meno pratiche: fare una donazione a una ONG, votare per un referendum che garantisca che i commercianti di materie prime rispettino i diritti umani e gli standard ecologici, acquistare oro del commercio equo e solidale, far circolare conoscenze critiche e prendere parola. Tuttavia, al di là delle diverse strategie adottate, c’è qualcosa di straordinariamente simile nella posizione emotiva e morale dell’orafo, dell’attivista e dello storico. Riconoscono, anzi disprezzano, la complicità coloniale delle aziende svizzere, dello Stato e dell’opinione pubblica, e non si identificano con questo progetto nazionale. Si espongono e contestano i miti, nonostante il rischio imminente di essere alienati e attaccati dai conservatori o dal grande pubblico.

Eppure, tutti e tre rimangono sobri e razionali nelle loro argomentazioni e nel loro atteggiamento. Sarà perché non sono direttamente colpiti dalla violenza e dall’ingiustizia che criticano (essendo socialmente posizionati come uomini bianchi con una specifica appartenenza di classe e un certo habitus professionale)? Sarà che sono motivati dal desiderio di compensare il senso di colpa (bianco) ereditato da una generazione precedente? Potrebbe trattarsi di un desiderio di essere svizzeri “in modo diverso”, in modo responsabile, rispetto alle posizioni dominanti di ignoranza, opportunismo e negazione? E se così fosse, esisterebbero altri modi di far fronte alla presenza dell’oro nello spazio pubblico postcoloniale?

III) Amnesia postcoloniale e nuove comunità affettive

Detto ciò, un discorso che si pone criticamente rispetto alla presenza dell’oro e che mira sviluppare strategie di responsabilità politica ed etica, presenta delle problematicità se si fonda sulla questione della “colpa bianca”.

Per dirla francamente, è possibile che io, indiano di seconda generazione cresciuto in Svizzera, possa essere toccato da questo tipo di discorso? Le soluzioni pratiche suggerite per il commercio delle materie prime potrebbero cambiare qualcosa rispetto all’amnesia postcoloniale svizzera che non solo ne nasconde il coinvolgimento in progetti postcoloniali all’estero, ma ha anche condotto alla riproduzione incessante del razzismo istituzionale e quotidiano “qui”? Più in generale: quali risorse e identità emotive, morali o estetiche offrirebbe un discorso sulla colpa e la responsabilità bianca alle persone di colore e/o provenienti da un contesto d’immigrazione?

Il cartellone pubblicitario della ONG sopracitata (con la donna che indossa una collana d’oro), se letto come un esempio del discorso della colpa e della responsabilità bianca, aiuta a mettere in luce le contraddizioni. L’accostamento tra glamour e disastro, bianco e nero, ricco e povero, pulito e sporco è radicata nella geografia postcoloniale del “noi qui” e del “loro là”. Ma chi è il pubblico, il “noi”, a cui si rivolge il progetto di legge? Come vengono considerati in questo discorso gli afro-svizzeri, le altre persone di colore e le persone immigrate che vivono, amano e lavorano qui? Persone che hanno famiglia in Paesi toccati dal commercio post-coloniale di materie prime, o che hanno dovuto lasciare Paesi in cui le guerre per le materie prime hanno avuto o hanno tuttora luogo.

Le loro prospettive, le loro storie, le loro utopie, le loro aspirazioni e le loro identità sono assenti e rimangono inespresse. A mio parere questo discorso e la logica emotiva che lo sostiene potrebbero, volenti o nolenti, contribuire a riprodurre la segregazione razziale dello spazio pubblico esistente in Svizzera e, paradossalmente, a preservare l’amnesia postcoloniale.

Più di un terzo della popolazione svizzera è di colore o ha legami con la migrazione nella sua storia individuale. Inoltre, il 25% della popolazione totale possiede pochi diritti politici poiché non dispone della nazionalità svizzera a causa delle leggi europee sulla naturalizzazione, rigide e razziste. Nella sfera pubblica nazionale, essi sono per molti versi “l’altro”; lavorano e pagano le tasse, ma non hanno il diritto di partecipare alla vita della società. I loro contesti di vita transnazionali, le loro difficoltà e i loro sogni non vengono discussi dall’opinione pubblica.

Vengono derisi quando parlano del razzismo quotidiano e invitati a tornare “a casa loro”. Hanno la sensazione di essere fuori posto in questa ostentazione pubblica di neutralità e innocenza. Sarebbe quindi possibile per loro assumere la posizione della colpa e della responsabilità bianca di fronte all’ingiustizia sociale globale senza rinnegare una parte di se stessi? Il cambiamento sociale nel contesto dell’amnesia postcoloniale può partire da qui?

Non esistono “qui” e “là”. Loro sono qui, ora! Noi siamo qui, ora! È necessario creare una nuova cartografia della Svizzera se vogliamo contrastare le geografie globali della disuguaglianza e costruire spazi di solidarietà. I discorsi liberali o umanitari che invocano l’universalismo e la responsabilità sono spesso mossi da un retaggio eurocentrico: il senso di colpa bianco è la contrapposizione alla brutale supremazia bianca, ma entrambi sono radicati nel presupposto che i valori della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia sociale siano stati inventati in Europa e debbano essere applicati in tutto il mondo – sia allo scopo di continuare a dominare, sia per riparare alle ingiustizie del passato e del presente. Queste due posizioni rendono impossibile un incontro autentico e paritario con l'”altro”. Per sviluppare un nuovo universalismo che non sia appesantito dalla colpa bianca e dal suo narcisismo, sarebbe necessario recuperare le relazioni sociali, etiche e affettive danneggiate dalla storia post-coloniale di violenza e dall’attuale negazione.

Per fare ciò, è necessario riesumare le memorie e le utopie che giacciono dormienti negli archivi post-migratori e post-coloniali, che si tratti di storie di vita, album di famiglia di persone migranti, documenti governativi, vecchi filmati o letteratura. Essi conservano non solo storie dimenticate di violenza e sofferenza, ma anche di solidarietà, amicizia e cosmopolitismo. Riconoscere e discutere queste realtà come legittime e condivise permetterebbe alla società di affrontare l’amnesia postcoloniale riscrivendo il passato nel presente e avviando un processo di riparazione politica e morale.

Processo, che richiede però nuove comunità di affetti, nuovi collettivi e nuovi spazi, pronti a ridisegnare i confini razziali e patriarcali tra “noi” e “loro” e a concepire storie, relazioni e immaginari improntati un nuovo “noi”. In conclusione suggerisco che, al di là delle concrete soluzioni giuridiche o tecniche adottate nel commercio globale delle merci, è solo partendo da questo terreno morale ed emotivo che potremo veramente placare i fantasmi del passato che ancora oggi affliggono chiunque, sebbene non tutti allo stesso modo.

FONTI

[1] Taussig, Michael : My Cocaine Museum (Chicago / London : University of Chicago Press, 2004).

[2] bientôt disponible sur renverse.co

[3] Pour une discussion plus détaillée de cette histoire, voir la conversation avec l’historien économique Jakob Tanner ainsi que son article “Goldrausch und Kulturrevolution : Pretoria-Zürich Paradeplatz”, dans la collection “The Air Will Not Deny You : Zürich im Zeichen einer anderen Globalität” (Zurich : diaphanes, 2016) édité par Franziska Koch, Daniel Kurjaković, et Lea Pfäffli.

[4] Commission indépendante d’experts Suisse-Seconde Guerre mondiale, La Suisse et les transactions sur or pendant la Seconde Guerre mondiale (Zurich : Chronos, 1998).

[5trouvez plus d’infos sur cet épisode complexe ici

[6] Erklärung von Bern, Rohstoff : Das gefährliche Geschäft der Schweiz (Zurich : Salis Verlag, 2012).