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MUSEO E COLONIZZAZIONE: LA BELLEZZA ESPOSTA NEI MUSEI È SPORCA DI SANGUE

Traduzione dell’intervista à Françoise Vergès del 06.06.23

Testo originale qui

MUSEO E COLONIZZAZIONE: LA BELLEZZA ESPOSTA NEI MUSEI È SPORCA DI SANGUE

Nel suo ultimo libro, Programme de désordre absolu. ”Décoloniser le musée”, la teorica femminista e antirazzista Françoise Vergès esamina il ruolo ideologico del museo nelle civiltà occidentali. Luogo sacro e strumento di dominio, è possibile decolonizzare tale istituzione?  Tendiamo spontaneamente a pensare al museo come a un luogo neutro, dove non c’è spazio per il conflitto e dove solo la conoscenza, la memoria e la meraviglia sono ammesse… Nel suo ultimo libro, lei descrive il museo occidentale come un “campo di battaglia”. Perché?

Il museo moderno è sorto alla fine del XVIII secolo in un momento estremamente importante. Per la storia dell’Occidente, era l’epoca della Rivoluzione inglese (1642-1651; 1688-1689), della Rivoluzione americana (1776) e della Rivoluzione francese (1789); ma era anche l’epoca della Rivoluzione di Haiti (1791) e del culmine della tratta degli schiavi. Mai prima di allora l’Europa aveva deportato così tanti uomini e donne africani. Fu anche un periodo di arricchimento e costruzione di nuovi stili di vita, costumi e usanze.

Tabacco, caffè e zucchero entrarono a far parte del consumo europeo. Emersero nuove forme estetiche, in particolare il gusto per i ritratti e il declino dei dipinti religiosi. A poco a poco, il museo acquisì un’immagine di neutralità, da cui oggi sembra inseparabile, e arriverei persino a dire che il museo è diventato l’ultimo luogo del sacro. Si può criticare l’università, l’esercito, la scuola, la polizia, ogni tipo di istituzione, ma criticare il museo equivale a toccare un tasto sensibile. È un attacco alla bellezza, a qualcosa che è al di sopra di tutto. Il museo occidentale è diventato un santuario per tutti i tesori dell’umanità: metterlo in discussione, in un mondo minacciato e devastato, significa compromettere ciò che di più puro è rimasto.

In che modo questa apparente neutralità è prima di tutto un’arma di neutralizzazione?

In primo luogo, perché questa neutralità separa il museo occidentale dal contesto in cui è nato: guerre, genocidi, massacri, sfruttamento ed estrazione con cui lo Stato si accaparra le opere e le ricchezze di altre regioni del mondo. Il museo svolge anche un ruolo di neutralizzazione delle estetiche concorrenti, perché attraverso di esso è stata stabilita una storia dell’arte in base alla quale oggi giudichiamo ciò che merita o non merita di essere considerato bello, e ciò che deve o non deve essere rispettato. “La creazione del museo universale si basa su una politica di esproprio e di saccheggio. Il museo è un’istituzione estremamente brutale e violenta. Ma questa violenza è completamente nascosta, molto difficile da distinguere a prima vista. Anche l’architettura del museo limita questa consapevolezza in quanto ordina lo sguardo e disciplina il corpo: entriamo in un luogo per incontrare il bello, l’eccezionale – cio che sta al di fuori della banalità della vita quotidiana. Un museo non è come un municipio o un teatro. Entrarvi e muoversi al suo interno implica farlo in silenzio, osservando una forma di contemplazione.

Tale sfoggio di bellezza, è posto al servizio di chi o cosa?

I musei europei contribuiscono alla grandezza dello Stato, al suo elevato livello culturale. Il prestigio della sua collezione rispecchia la sua nazione: solo un grande Paese e una grande civiltà hanno il diritto di possedere, conservare e preservare ciò che essi stessi hanno definito grande. In questo senso, il Louvre svolge un ruolo molto importante: è il primo “museo universale”. Offre un ampio panorama dell’arte – dipinti, sculture, oggetti di ogni civiltà. Il Louvre è il museo “della Francia”, così come il British Museum è quello dell’Inghilterra, l’Humboldt Forum della Germania e così via. Questo modello faceva inevitabilmente parte del discorso coloniale: essere depositari della civiltà significava essere investiti del ruolo di civilizzatori nei confronti di altri popoli.

Perché il Louvre è stato così decisivo per la nascita del modello di “museo universale”?

Il Louvre è figlio dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese. Sotto l’Ancien Régime, le gallerie del Louvre esponevano anche i dipinti e le collezioni del re, ma solo per gli aristocratici. Allora i rivoluzionari dichiararono che le opere appartenenti alla monarchia e a coloro che erano fuggiti dalla Rivoluzione dovevano essere confiscate senza alcun compenso. Si trattava di un gesto rivoluzionario molto forte, che consisteva nel restituire al popolo ciò che era stato accumulato attraverso il suo sfruttamento. Ma ben presto, siccome la Francia era diventata la terra della libertà, si assunse il diritto di impadronirsi delle opere d’arte che si trovavano nelle mani dei tiranni d’Europa. Le “libera”. Agli eserciti rivoluzionari fu affidato il compito di confiscare queste opere e di riportarle nella terra della libertà. Ma la Francia rivoluzionaria non aveva alcuna intenzione di restituirle ai popoli europei una volta liberati dal giogo dei re. Quando arrivarono in Francia, i dipinti, le statue, i manoscritti e i mobili sequestrati divennero parte di collezioni inalienabili, proprietà del popolo francese, che non poteva esserne spossessato. La creazione del museo universale si basa su una politica di espropri e saccheggi accelerata dalle campagne napoleoniche. Questi furti aumenteranno esponenzialmente durante le conquiste coloniali e anche in seguito. Dopo la caduta dell’Impero, alcune opere sottratte ritornano agli Stati europei. Da un lato, la reputazione del Louvre rimane intatta, tanto è ammirato; dall’altro, nessun paese non europeo rivedrà gli oggetti che gli sono stati rubati (ad esempio, gli oggetti presi dall’Egitto). Il Louvre si distacca quindi dalla sua origine rivoluzionaria per diventare un museo di prestigio, invidiato e imitato da tutti i paesi europei.

Nel suo libro, lei traccia un parallelismo interessante tra l’estrattivismo delle risorse e l’estrattivismo delle opere d’arte durante le guerre imperialiste e coloniali. Queste due forme di estrazione fanno parte della stessa ideologia?

Certo: si tratta di accaparrarsi risorse per arricchire lo Stato colonizzatore, ma anche di impossessarsi di cose che non hanno necessariamente un valore di mercato nel senso capitalistico del termine. Il processo che dà “valore” a un oggetto deve essere inteso come legato al capitale, ed è l’Occidente imperialista a decidere questo valore. Questo processo, i cui effetti si protraggono ancora oggi, contribuisce a creare una gerarchia razziale che influisce sul prezzo degli oggetti d’arte. Il Paese colonizzatore si arroga il diritto di setacciare i Paesi colonizzati da cima a fondo e di spogliarli di tutti gli oggetti utili al suo potere. Il semplice fatto di designare come “oggetti” cose che facevano parte della vita dei popoli, che si intrecciavano con il quotidiano delle comunità, fa parte di questa ideologia. Questa oggettivazione permette di distaccare ciò che è stato fabbricato, custodito e amato dal suo ambiente sociale, culturale ed emotivo. Nel XIX secolo, la colonizzazione post-schiavista ha applicato il principio dell’esaurimento (alla base di tutta la scienza occidentale dal XVIII secolo) al mondo intero. Ma la genuina curiosità non può competere con l’avidità coloniale. Per sapere, bisogna avere tutto. Non collezioneremo solo cento farfalle, cento frecce, cento maschere o cento statue, ma decine di migliaia. L’Europa vuole tutte le farfalle del mondo, tutti i manoscritti del mondo, tutte le maschere africane del mondo. Coloni, missionari, soldati, amministratori, esploratori e viaggiatori strappano statue ai templi, oggetti ai loro legittimi proprietari, saccheggiano e depredano. Questo estrattivismo contribuirà all’accumulo di conoscenza, e persino alla sua creazione, ma sulla base di una concezione di superiorità civile. Anche se ci viene detto che chi ha acquistato un oggetto lo ha fatto per sincera curiosità, non possiamo negare la profonda asimmetria istituita dalla colonizzazione armata. Inoltre, nel XXI secolo, Stati come la Francia si rifiutano ancora di parlare di riparazione per questi crimini.

Nel suo libro cita la scrittrice Ariella Aïsha Azoulay, secondo la quale “la denominazione “arte” è un tipo di violenza imperiale”…

Sì, e le faccio un esempio. Al Musée Guimet (il museo nazionale delle arti asiatiche di Parigi, ndr) ci sono cose molto belle, tra cui statue di dee e divinità provenienti dal Sud-est asiatico, dall’Asia orientale e dall’Afghanistan, designate come “arti asiatiche”. Erano statue alle quali, ogni giorno, la gente veniva a fare offerte, ad accarezzarle, a nutrirle, a presentare loro i propri figli, a chiedere loro favori… Degli europei (tra cui, come sappiamo, André Malraux) le strapparono ai loro templi e alle persone che le veneravano, le collocarono in un luogo dove non erano altro che semplici pezzi di pietra – superbi, certo – e dichiararono: “Questa è arte”. È un gesto di espropriazione e colonizzazione di qualcosa che aveva un nome! E quel nome non era “statua di una dea”…  Nel processo di restituzione delle opere d’arte rubate, spesso tendiamo a sottovalutare lo strazio che può essere stato per le persone dover imparare a vivere senza questi “oggetti”. Per non parlare dei crimini che sono stati perpetrati al fine di rendere possibile questo saccheggio, i massacri, i genocidi, che oggi appartengono a una storia che dovrebbe essere separata dalla storia dell’arte. Invece, in nome dell’idea che l’arte e la bellezza trovassero naturalmente la loro autentica dimora in Europa, il resto del mondo è stato devastato. La bellezza esposta nei musei è coperta di sangue. Citerò alcuni casi emblematici, che però non devono oscurare l’enorme portata del problema.

Possiamo sicuramente citare i beni sottratti alle famiglie ebree dai nazisti o dai loro collaboratori, che non sono stati tutti restituiti. Oppure i fregi del Partenone conservati al British Museum, rivendicati dalla Grecia dal 1963 ma che il governo britannico si rifiuta ancora di rimpatriare.

O i bronzi del Benin (vedi sotto), o i tesori del Palazzo d’Estate di Pechino, che le truppe britanniche e francesi saccheggiarono nell’ottobre 1860 (vedi p. 84). Immaginate che, ad esempio, nel XV secolo i cambogiani siano venuti in Francia e abbiano abbattuto tutte le statue di Notre-Dame e le grandi cattedrali francesi, e che vi sia stato detto: “Oh sì, è tutto molto ben conservato, c’è un museo molto bello a Phnom Penh…”. Per qualsiasi europeo, questo sarebbe inimmaginabile, persino insopportabile. Eppure questo è ciò che le potenze occidentali hanno fatto per arricchire i loro musei. Perché non vogliono capire, perché non vogliono vedere l’entità del crimine?

I bronzi di Benin sono una collezione di oltre mille lastre di ottone realizzate tra la metà del XVI e il XVIII secolo per il palazzo reale di Benin. Furono creati dal popolo Edo del Regno di Benin, oggi parte della Nigeria. Saccheggiate dai soldati britannici durante una spedizione punitiva nel 1897, furono disperse in tutta Europa. Alcune delle targhe si trovano oggi al British Museum di Londra e al Museo Etnologico di Berlino. Alcune sono attualmente in fase di restauro.

 L’ex Palazzo d’Estate o Parco Yuanming è un ex palazzo imperiale costruito nel XVII secolo, a nord-ovest della Città Proibita di Pechino. Nell’ottobre del 1860, durante la Seconda guerra dell’oppio, le truppe britanniche e francesi bruciarono l’edificio dopo averlo saccheggiato. Da allora, la Cina ha chiesto la restituzione di questi oggetti, che sono stati dispersi tra vari musei, tra cui il Museo dell’Esercito di Parigi, e collezioni private.

Questi furti sistematici durante le guerre coloniali spiegano perché oggi il 61% dei musei si situa in Europa occidentale e in Nord America, mentre solo l’1,5% si trova in Africa?

Non è solo questo. È anche il fatto che il museo fa parte dell’apparato ideologico dell’Europa e dell’Occidente. Non sapremo mai come i popoli o gli Stati avrebbero potuto, in un determinato momento, pensare a cosa conservare e cosa no, e come, perché il modello museale occidentale è diventato assolutamente egemonico. Dobbiamo stare attenti quando diciamo “il museo”, come se ci fosse naturalmente un solo modo di esporre e conservare. Stiamo parlando di un’istituzione che si trova massicciamente nel Nord del mondo e che ha potuto acquisire prestigio e stabilire il proprio dominio sulla base di politiche imperialiste. Le domande che sorgono ai Paesi del Sud sono: “Dobbiamo imitarla? Dobbiamo iniziare ad avere tanti musei come in Europa? Dobbiamo applicare gli stessi metodi di conservazione? Quest’ultima domanda mi pare fondamentale. Per esempio, se si pensa alle migliaia di strumenti musicali che vengono “conservati” e “custoditi” al musée du quai Branly… Essendo esposti sottovetro, questi strumenti diventano non solo oggetti morti, ma anche oggetti tossici per chi li maneggia perché, per essere conservati, devono essere irrorati con pesticidi e insetticidi. Un tamburo è fatto per risuonare, uno strumento a corde per essere suonato.

La Francia si è recentemente impegnata ad accelerare la restituzione di alcune opere: queste misure vanno nel verso giusto?

Nel gennaio 2022, il Senato francese ha proposto la creazione di un “Consiglio nazionale” per le restituzioni, in quanto i senatori temono la propensione del governo a disporre di beni inalienabili per scopi diplomatici o commerciali. Ma per il momento le azioni concrete sono poche. Nel febbraio 2023, il Presidente ha parlato di una “legge quadro per stabilire la metodologia e i criteri per procedere a favore dei Paesi africani che lo richiedono”. In Francia ci saranno delle restituzioni, soprattutto verso i Paesi africani; l’Asia meridionale e orientale, le Americhe, il Pacifico, l’Oceano Indiano e l’Europa non sono presi in conto.  Alcuni musei occidentali hanno recentemente iniziato a riesaminare le loro collezioni e a considerare la possibilità di restituirle, soprattutto ai Paesi africani. La situazione varia da Paese a Paese, a seconda delle leggi in vigore, del grado di sostegno a tale iniziativa e della composizione delle équipe incaricate dello studio. I musei sono entusiasti e parlano addirittura di “decolonizzazione delle collezioni”. Ma non si tratta di decolonizzazione, bensì di restituzione, che risponde (in parte) alle richieste avanzate da decenni dagli Stati africani.

Di fronte alle sfide che devono affrontare, i musei cercano anche di attuare politiche di diversità e inclusione, di ripensare i loro percorsi e di dare spazio alle parole e alle memorie di persone e popolazioni prima invisibili. Anche questi “sforzi” fanno parte della strategia di cancellazione che lei denuncia?

In alcune équipes ci sono indubbiamente persone sincere e curiose. Ma gli accorgimenti adottati non hanno, ancora una volta, nulla a che vedere con una prospettiva decoloniale: si tratta di giustizia, di concessioni e di riaggiustamenti che non risolvono nulla di sostanziale. Ciò che ha reso possibili i furti e i saccheggi, e che continua ancora oggi, rientra nella logica dell’economia del capitalismo razziale. Se partissimo da lì, l’intero edificio crollerebbe. Il discorso della messa in discussione rimane moralistico: “Tutto questo non era giusto, ma d’ora in poi faremo le cose in modo diverso”. Ammiro, se posso dirlo, la capacità dei musei di evitare sempre la matrice dello scandalo. Quando i giovani attivisti ambientalisti spruzzavano zuppa sui dipinti o incollavano le dita ai muri per protestare contro l’inazione climatica, l’attenzione si concentrava su ciò che veniva visto come un sacrilegio (attaccare l’arte) piuttosto che su ciò che si intendeva proporre: l’arte vale più della sopravvivenza del pianeta. Non bisogna ridurre cio che sto dicendo ad una volontà di distruggere le opere d’arte; sto dicendo che dobbiamo riflettere sulla lunga storia della costituzione dell'”arte”, sulle complicità tra arte e imperialismo, sul ruolo dei miliardari nel mercato dell’arte e sulla privatizzazione, sulle disuguaglianze tra Nord e Sud, sull’egemonia di un modello.

Parla anche di artwashing? Cosa intende?

L’artwashing consiste nell’usare l’arte per riciclare – come il riciclaggio di denaro, ma anche nel senso di cancellare – il razzismo strutturale, l’economia dell’espropriazione e dell’estrazione, il crimine, la disuguaglianza e l’ingiustizia. Ci sono molti modi per farlo. Ad esempio, ricorrendo a un artista contemporaneo per tradurre o rappresentare un momento difficile. Un omicidio, per esempio. Invece di raccontare perché e come è stato perpetrato l’omicidio di un attivista anticoloniale, il museo evita il conflitto e l’artista (qualunque sia il suo talento) viene “al posto di”. La pacificazione ricercata dal museo (che non può rivelare tutto l’orrore o far luce sui “postumi” del colonialismo) cancella la radicalità originaria delle lotte. Lo Stato francese, checché ne dica, si sottrae alle sovvenzioni e favorisce il ricorso al mecenatismo privato. La gente partecipa alle mostre, ma le condizioni in cui esse vengono prodotte e le persone che gestiscono i musei sono ignorate. Poiché un museo è “arte”, non può essere un luogo di sfruttamento, non può essere come una fabbrica!  Il governo può censurare e punire gli artisti e allo stesso tempo promuovere il suo sostegno alla cultura e all’arte, in particolare attraverso i programmi a favore della diversità. Ma in un momento in cui giovani neri e arabi vengono uccisi dalla polizia, in cui i bambini vengono umiliati a Mantes-la-Jolie da poliziotti armati fino ai denti che li costringono a inginocchiarsi con le mani dietro la testa, questi programmi servono a promuovere una retorica vuota. Gli artisti non devono diventare semplici commentatori, ma nemmeno ausiliari dello Stato o dell’antirazzismo neoliberale. Portare l’elemento “decoloniale” nel museo significa ancora estrarre idee e creazioni in un mondo che si nutre solo di estrazione. Cosa fare dunque dell’istituzione? Questo è l’oggetto di un dibattito in corso.

Per quanto riguarda il ruolo delle fondazioni filantropiche, lei vede la città di Arles come un caso da manuale…

Conoscevo già un po’ la città, ma l’ultima volta che ci sono andato nel 2021, su invito di una libreria indipendente, ho potuto scoprire fino a che punto è stata colonizzata dal filantrocapitalismo. La città è stata trasformata dall’arrivo e dall’insediamento di fondazioni, un branco di avvoltoi. Arles non è molto grande, era una città proletaria, comunista per molto tempo, poi deindustrializzata. In pochi anni si è imborghesita e gentrificata, con i suoi negozietti che vendono sapone alla lavanda, dove ogni scusa è buona per rimettere in scena il passato romano e proletario. Proletario e provenzale sono diventati elementi di decoro, un’estetica per soddisfare un pubblico borghese e colto che prova il piccolo brivido all’idea di recarsi nel bistrot dove forse, un tempo, i lavoratori immigrati venivano a rilassarsi e a bere qualcosa. Quando la cultura popolare assume lo status di patrimonio, diventa capitale. Anche in questo caso, questa impresa è estremamente brutale: crea da zero uno spazio di comfort e di vita culturale e artistica per una popolazione dai gusti “sofisticati”. Tuttavia, questo è reso possibile dal fatto che certe persone vengono spinte all’esterno, e al fatto che come l’ambiente circostante, esse vengono sfruttate per garantire il sostentamento di questo spazio protetto. Uno spazio artistico e culturale, checché se ne dica, è una struttura sociale strettamente legata alle reti economiche e alle persone che lo puliscono e lo curano, ma che richiede di tenerle a distanza, di invisibilizzarle. C’è molto lavoro da fare su questo, ed è estremamente importante perché dobbiamo costantemente squarciare il velo dello sfruttamento nascosto. Dobbiamo sempre porci la domanda: questo posto, chi lo pulisce, chi lo custodisce, chi lo nutre?

Avete organizzato delle visite guidate al Louvre dal titolo “La schiavitù al Louvre, una realtà invisibile”. Cosa volevate mostrare?

Nel 1998 ricorreva il 150° anniversario dell’abolizione della schiavitù nelle colonie francesi. All’epoca, la sinistra era al potere e il governo decise di trasformare l’anniversario in un evento importante, con un tocco socialista. Rimasi stupita da quanto poco la gente sapesse della schiavitù in Francia – non potevo crederci! Cominciai a interessarmi a questa cancellazione e, nel 2004, fui nominata membro del Comité pour la Mémoire de l’esclavage, creato in seguito alla legge del 2001 che riconosceva la tratta degli schiavi e la schiavitù come crimini contro l’umanità. Ho proposto di compilare un elenco di tutti gli oggetti relativi alla tratta degli schiavi, alla schiavitù e alla loro abolizione, conservati nei musei nazionali francesi. Sto studiando questa iconografia e quella dell’abolizionismo europeo. Ma spesso, quando parlavo di schiavitù e dicevo che la Francia era stata un Paese schiavista, le persone rispondevano: “Sì, ma i miei antenati non erano né commercianti né proprietari di schiavi”. Così mi sono chiesta come potevo dimostrare che la società francese aveva tratto vantaggio dalla schiavitù. Mi è venuta l’idea di mostrare come l’arrivo dei prodotti della schiavitù – zucchero, tabacco, caffè, cioccolato e cotone – avesse cambiato profondamente gli usi sociali e la cultura della società francese, senza che i suoi membri avessero nulla a che fare direttamente con la tratta degli schiavi o la schiavitù. E di individuare questi prodotti nelle rappresentazioni pittoriche in Europa. Gli schiavi non erano direttamente presenti, ma senza il loro sfruttamento nessuno di questi prodotti sarebbe entrato nella rappresentazione pittorica o avrebbe trasformato le arti decorative (caffettiera, zuccheriera, tazzina da caffè e zollette di zucchero). Ho quindi collaborato con il personale del museo per individuare i dipinti che raffigurano un uomo che fuma la pipa o una donna con una tazzina in mano. Quando il caffè e lo zucchero sono arrivati in Europa, le condizioni di produzione di tali prodotti sono state cancellate e il piacere è diventato il tema dominante. Una delle cose che volevo dimostrare è che l’educazione ci ha insegnato a non vedere ciò che avevamo davanti agli occhi, a naturalizzare lo sfruttamento. L’artista non dipingeva la schiavitù, ed è questo l’aspetto interessante. Il prodotto era integrato nella vita europea, aristocratica e borghese, poi popolare, perché era così: arrivava sulla tavola, senza bisogno di pensare a cosa l’avesse portato lì.

È possibile decolonizzare il museo?

È assolutamente impossibile! Non vedo come si possa decolonizzare un’istituzione quando né la società né il mondo non lo sono. Dobbiamo prendere sul serio il termine decolonizzazione. Non significa cambiare due o tre testi in un museo, portare nuovi artisti o far sì che gli oggetti “dialoghino” tra loro. Frantz Fanon ha scritto che “la decolonizzazione, che si propone di cambiare l’ordine del mondo, è, come si vede, un programma di disordine assoluto” (vedi sotto). Per me questa frase è la definizione stessa di decolonizzazione. Si tratta quindi di definire il disordine da mettere in atto, in contrapposizione, all'”ordine” del mondo, che non è altro che caos, che distrugge tutto ciò che incontra sul suo cammino.

Psichiatra nato nelle Antille francesi, Frantz Fanon (1925-1961) è una figura di spicco dell’anticolonialismo. Pensatore dell’alienazione e della dominazione coloniale, le sue riflessioni si sono concentrate sulla sofferenza psicologica subita dai colonizzati/e. Ha sviluppato questo pensiero nelle sue opere principali, tra cui Peau noire, masques blancs (Le Seuil, 1952) e Les damnés de la terre (Éditions Maspero, 1961).

Frantz Fanon ci ricorda che la decolonizzazione non può che essere un processo violento…

Sì, necessariamente: così è stato e cosi sarà ancora. Il neoliberismo non si arresterà con dolcezza.

Allora parlare del museo non è solo un pretesto per affermare che un intero mondo (capitalista, coloniale, patriarcale) deve essere abolito?

Ho trovato il museo interessante perché spesso viene trascurato nei luoghi di militanza, che lo considerano solo una “cosa borghese”. In realtà, svolge un ruolo molto più importante di quanto si pensi. È un dispositivo ideologico di dominio estremamente potente. I movimenti sociali e i programmi di liberazione ed emancipazione non hanno sbagliato a sottolineare il ruolo dell’arte e della cultura nel processo di liberazione.

Come sarebbe un “post-museo” libero dalla dominazione coloniale?

Sarebbe un museo che non espropria coloro che vi sono rappresentati. La rappresentazione è una questione molto importante nelle lotte e la radicalità può essere facilmente compromessa dall’estetizzazione o dalla folclorizzazione.

Possiamo persino parlare di estrazione di idee radicali, quando questa o quella lotta è oggetto di una mostra con l’unico scopo di generare profitti per chi la organizza, senza ovviamente che le popolazioni interessate vengano consultate in alcun modo. Che ne sarà dell’oggetto in un ambiente post-museale? Dovrebbero rimanere feticizzati? L’idea occidentale che senza oggetto non ci possa essere narrazione va respinta. La temporalità per secolo, la spazializzazione per “area di civiltà”, la strumentalizzazione di termini come “scambi, prestiti, conversazioni, dialoghi” per minimizzare le disuguaglianze strutturali: tutte queste e molte altre cose devono essere criticate. Immaginare un post-museo significa partire dall’inizio: cosa, perché, come, dove, con chi, con cosa? Tutte queste domande sono tanto affascinanti quanto importanti e partecipano a delle nuove forme di scrittura delle nostre storie.