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ECONOMIA E RAGIONE UTILITARIA: Che cos’è l’economia? L’economia è un furto!

ECONOMIA E RAGIONE UTILITARIA

Che cos’è l’economia? L’economia è un furto!

Di solito, una riflessione non preconcetta sulle condizioni del nostro tempo concede pochissimi entusiasmi al sostegno del mondo moderno. Probabilmente, non molte persone sarebbero disposte a difendere la guerra, la xenofobia, la coercizione, l’inquinamento, lo sfruttamento. Pur in una simile cornice sostanzialmente condivisa, la fede nell’economia rimane una tra le concessioni più irriducibili.

Concepire un mondo non inquadrato dalle leggi dello scambio e del vantaggio personalistico sembra quasi impossibile alla nostra mentalità, almeno come immaginarlo libero dal bisogno di produrre: produrre cose, servizi, bisogni a sua volta. L’idea che per stare bene si debbano avere sempre più oggetti, o che si debbano inventare sempre nuove performance, o che si debba stravolgere il mondo in maniera ancora più originale di quanto non lo sia già ora, muove da quella mentalità tipicamente civilizzata che vuole la natura umana come insufficiente a sé stessa, come carente di qualche elemento indispensabile al suo stesso equilibrio: una carenza che solo un’iniziativa proveniente dall’esterno può evidentemente colmare. Collateralmente all’Ideologia, che nasce con lo scopo di riempire i vuoti relazionali che ipotizziamo imputabili al nostro essere, l’Economia si dovrebbe occupare di colmare quelli individuali, psicologici e materiali. In pratica, mentre il cristianesimo, il buddismo, il socialismo, ecc. dovrebbero riparare alla nostra supposta incapacità di rapportarci socialmente con gli altri, la produzione di cose e servizi, il loro scambio e il profitto economico che se ne ricava, dovrebbero metterci al riparo dal malessere materiale e dall’insoddisfazione. Senza economia la ricchezza non esiste (ci viene detto in tutti modi possibili), e siccome per l’economia è ricchezza solo ciò che si produce, si scambia, si guadagna o si consuma, qualsiasi azione che non rientri in questo circolo programmato di professionalità non è considerata ricchezza: gli affetti, il buon cuore, la capacità di ascolto, la generosità non hanno mai fatto salire gli indici del PIL. Persuasi di essere congenitamente in difetto di quel particolare ingrediente che dispensa felicità, siamo convinti di poter rimediare alla perdita acquisendo cose, denaro, posizioni sociali di riguardo, prestazioni, devozione altrui. Per ottenere questo non ci facciamo grandi scrupoli e accettiamo di “trasformare” la natura a nostro piacimento, sottomettendo e manipolando tutto quello che ci vive attorno: animali, piante, persone, energie della Terra, relazioni, sensibilità. In effetti, per l’economia ogni elemento vivente e non vivente deve essere reso “produttivo”, ossia tramutato da naturale in economico. Perché solo a seguito di questa conversione ciò che prima non aveva un valore lo acquisisce. Per la mentalità economica, insomma, tutto ciò che rimane allo stato naturale, che non viene cioè forgiato secondo una forma economica, non ha alcun pregio, è improduttivo. «Una landa disabitata – ha schematizzato Mander – è “non produttiva” salvo che non possa essere sfruttata per l’estrazione dell’uranio o irrigata per la produzione agricola o ricoperta di case.

«Una foresta di alberi non tagliati è improduttiva.

«Un pezzo di terra su cui non si sia costruito è improduttivo.

«Il carbone o il petrolio che resti nel grembo della terra è improduttivo. Gli animali che vivano allo stato selvaggio sono improduttivi» (1)

Per chi è abituato a vedere il mondo secondo una prospettiva modellata dall’economia, la natura, e con essa tutto quel che esiste, non ha dunque alcun significato in sé ma solo in quanto elemento potenzialmente commutabile in “prodotto”. Tutto quel che rimane in forma originale e non elaborata, sia essa perfino una distanza fisica, una pausa temporale o un’attitudine particolare, resta inutilmente abbandonata a se stessa: passibile soltanto di essere occupata e messa a profitto.

Naturalmente, l’umanità non è sempre stata in balia di questa razziante forma mentis. E soprattutto non è obbligata oggi a continuare a farla propria e a venerarla. Alain Caillé, che ha ben chiaro quanto sia temporalmente recente l’affermazione di una visione del mondo orientata dall’economia, ha provato a compendiare in poche parole milioni di anni di vita non-civilizzata: è certo, è scritto in Critica della ragione utilitaria, «che le società selvagge si preoccupavano piuttosto di assicurare la propria coesione che non di produrre, e che in quanti in esse vivevano ricercavano piuttosto il prestigio o il farniente che non l’accumulazione delle ricchezze materiali» (2). Si può ovviamente dissentire dall’idea di “prestigio” che il sociologo francese ha in mente, e criticare anche quel suo approccio dichiaratamente “istituzionalista” che eleva il controllo sociale (coesione sociale) ad antidoto all’accumulazione economica. Nella sostanza, però, l’affermazione del co-fondatore del Movimento Antiutilitarista resta condivisibile: per milioni di anni i nostri progenitori umani si sono ben guardati dal trasformare il mondo in “prodotto’’, si sono disinteressati sistematicamente ad ogni logica possessista e hanno mirato invece a salvaguardare la loro autonomia (autosufficienza) senza anteporre mai alcun ideologico vantaggio personalistico all’interesse di un universo naturale inteso come un “tutt’uno inscindibile”. Solitamente, pensiamo all’economia come a una manna che ci mantiene al mondo, e la prospettiva opposta (e cioè che siano le persone a mantenere l’economia) ci sembra fin quasi una provocazione. Eppure, considerando gli esiti così degradati del mondo in cui viviamo, un dubbio rimane a nutrire i nostri risentimenti: e se fosse l’economia a impedirci di essere autosufficienti e felici?

Risponde al quesito la famosa «storiella dell’indigeno che vive in un’isola del Pacifico, riposando comodamente in una capanna sulla spiaggia, raccogliendo frutti dall’albero e fiocinando pesci nell’acqua. Arriva sull’isola un uomo d’affari, compra tutto il terreno, abbatte gli alberi e costruisce una fabbrica. Quindi assume l’indigeno perché lavori in cambio di denaro in modo che un giorno l’indigeno possa permettersi frutta e pesci conservati, provenienti dal continente, una graziosa casetta in conglomerato vulcanico vicino alla spiaggia con vista sul mate, e fine settimana per godersela» (3)

Non c’è nulla di velato nel terribile potere dirompente dell’economia. Le dinamiche globalizzatrici che stanno completando l’invasione del pianeta esprimono da sempre, senza riserve, lo spirito “colonialistico” della scienza dell’utile: per rendere possibile l’affermazione di una mentalità economica laddove questa non c’è, occorre pianificare e disporre interventi di assimilazione particolarmente travolgenti sull’ambiente, sulle comunità di persone, sull’abito mentale dei singoli individui. Si deve appunto separare ognuno dal proprio contesto naturale, dal legame che lo unisce agli altri e a sé stesso per trasformarlo in acquirente; contestualmente si deve stravolgere il paesaggio, rimodellarlo secondo una forma commerciale per metterlo in vendita ad ogni acquirente. L’espansione del mondo-mercato non potrebbe avvenire senza vittime, lo sappiamo tutti molto bene. Ciononostante, ogni iniziativa che mira a sostenere la diffusione di una mentalità economica continua ad essere giustificata: non importa se impone la deforestazione di ogni lembo di terra libera, la sua cementificazione, il dissesto ambientale in genere; non importa se si presenta come sfruttamento esplicito di uomini e donne, di bambini e bambine, di altri esseri viventi, di minerali, di forze della natura; non importa se impone l’integrazione forzata di popolazioni non irreggimentate ai diktat della ragione utilitaria incentivando la distruzione delle loro relazioni di autosufficienza e di autonomia locale.

L’idea portante che muove i grotteschi propositi dell’economia è quella che stabilisce che ogni essere umano abbia interessi contrapposti a quelli dei propri simili e della natura. Torna cioè la concezione civilizzata di una umanità separata dal resto del mondo e dal proprio genere, di un’umanità in competizione con ogni elemento della Terra e chiamata a “salvarsi” solo sulla pelle degli altri. Frenetica fino al delirio, questa prospettiva chiude all’interno di una logica conflittuale che non lascia molta libertà: massimizzare i “propri” interessi contro chiunque; difendersi dall’attacco di chiunque contro i “propri” interessi. In quest’ottica, occupare un terreno selvaggio, metterlo in produzione, farlo rendere significa fare i “nostri” interessi. Rinchiudere un animale in gabbia per esibirlo a pagamento o per imporgli cicli riproduttivi a comando e venderne le pelli, il latte, la carne significa fare i “nostri” interessi. Sfruttare il lavoro di altri per inventare diavolerie da rifilare ad un pubblico istruito a desiderarle significa fare i “nostri” interessi. Persino trasformare noi stessi in oggetti di scambio, in “forza-lavoro” da vendere al migliore offerente vuol dire fare i “nostri” interessi. È a forza di perseguire questi “nostri” interessi che ci siamo ritrovati, nei secoli, a fare i soldati, i servitori, i portaborse, gli usurai, gli aguzzini, gli sbirri, i boia. Fare i “nostri” interessi, che è l’essenza stessa della ragione utilitaria, resta la sola ragione delle nostre azioni. E da quando poi le rassicurazioni dell’economia politica ci hanno garantito che fare i “nostri” interessi non solo non è antisociale ma serve il benessere di tutti, ogni prospettiva di tornare indietro si è fatta sempre più irreale. La mentalità economica ha quindi potuto dilagare, occupando ogni spazio pubblico e privato di riflessione, ogni forma di organizzazione sociale, ogni centimetro quadrato di natura esistente. Oggi, siamo talmente influenzati da questa mentalità che non riusciamo più a supporre nulla che non passi per le sue regole assurde. Sono ormai trascorsi così tanti secoli da quando abbiamo accettato di metterci al servizio di quel trafficone della storiella dell’indigeno, che abbiamo dimenticato che per vivere non c’è alcun bisogno di lui né del suo sistema stravolgente e servile. Così, mentre ci compiacciamo per la frutta e i pesci conservati che arrivano dal continente, per la casetta con vista mare e per il week-end in cui godercela, dimentichiamo cosa voglia dire vivere (non solo nel week-end), cosa voglia dire mangiare (non solo alimenti inscatolati e avvelenati), cosa voglia dire condividere una vita di comunità (e non solo di costrizione urbana, di spersonalizzazione burocratica, di finta socialità on-line). Allo stesso tempo, siamo pure costretti a combattere tutto il giorno contro chi non abbia ottenuto nemmeno questa minimale opportunità, e cerca quindi d’impossessarsi del nostro cibo, della nostra casetta, del nostro week-end…

L’idea che i beni e le attività umane non abbiano rilevanza per quello che sono ma solo nella misura in cui sono trasformabili in “prodotti” (e cioè come esito di un processo di conversione che impone la riduzione del mondo in funzione di questo esito), descrive appunto la totale rigidità dell’ambiente psicologico in cui siamo abituati a vivere. E l’idea che questi “prodotti” debbano poi essere continuamente scambiati con altri per rendere massimi i vantaggi di chi scambia, completa il cerchio delle collocazioni mentali civilizzate, traferendo l’inquadramento ideologico dal livello del convincimento personale a quello pratico dei rapporti concreti. Il panorama delle relazioni civili è sempre un panorama di relazioni di utilità. Eppure, la capacità di procurarci quello che ci serve per vivere (dal cibo agli affetti) non passa necessariamente attraverso dinamiche economiche; anzi: tanto più le scalza, quanto più ci appartiene. Basta fare l’esempio dei sentimenti perché la cosa appaia subito chiara. Comprare l’affetto di una persona non ci rende più felici. Un affetto provato per denaro non è un affetto, e per quanto col denaro ci si possa riempire di persone pronte a dichiararsi disposte a provare un sentimento per noi, tutti sappiamo che quello in realtà è un sentimento per il denaro, e chiunque (anche il più invasato sostenitore di un mondo interamente regolato dall’economia) vi preferirebbe un affetto sincero. Ovviamente, ciò che vale per i sentimenti vale anche per ogni altra necessità della vita. Siamo stati così profondamente separati da noi stessi, dal nostro ambiente naturale, dalle nostre innate capacità di autosufficienza, che non ci rendiamo più nemmeno conto di ciò che ci è stato sottratto; eppure, se pensassimo per un momento al piacere che ci procura il fare le cose da soli (qualsiasi cosa) ci rendemmo subito conto di quanto sia arido il percorso che ci porta ad ottenere un analogo risultato comprandolo. L’economia, col suo portato fatto di efficienza in ogni campo, di produzioni in serie, di elevazione del denaro a valore assoluto nei rapporti sociali ha isterilito ogni spirito di autosoddisfazione dei bisogni, rimettendo le nostre necessità all’esito di una fredda, inerte, superficiale compravendita.

Per dirla in altro modo, l’economia non ci ha soltanto tolto la capacità di procurarci da soli ciò che serve alla nostra esistenza (la storiella dell’indigeno trasformato in operaio ce lo conferma ancora una volta), ma ci ha anche strappato di dosso la possibilità, il tempo e il piacere di farlo, appiattendo ogni esigenza interiore alla logica matematica dello scambio: io ti do perché tu mi dia. Grazie all’ideologia dello scambio, insomma, la nostra esistenza non è più determinata da una relazione diretta con il mondo naturale (e sulla nostra capacità di farvi affidamento), ma da una soggezione alle regole dell’economia, e in particolare dalla capacità di produrre reddito o di disporre di un capitale. Senza soldi in un mondo invaso dall’economia non si vive. Proprio per questo, ogni azione che si svolge in un simile contesto cessa di rilevare come azione in sé per diventare prestazione, ossia un’”azione in prestito”: un’azione, insomma, che reclama una restituzione, una contropartita finalizzata appunto al conseguimento di un reddito o di un capitale.

In un’ottica condizionata dall’economia tutto assume un significato economico: le competenze personali smettono di essere tali e si trasformano in specializzazione (che infatti si concede commisurandola al vantaggio che ne ricava lo specialista), le cose smettono di essere cose e si tramutano in merci, le attività smettono di essere attività per diventare servizi e persino la creatività individuale perde il proprio connotato umano per ridursi a una più pratica capacità imprenditoriale. Abilità, cose, azioni, iniziative, fantasia si vaporizzano. Smarriscono cioè quello spirito che è solo un contesto libero dal calcolo ad animarlo, e diventano oggetti” capaci di essere sfruttati al fine del profitto. Abbiamo sempre avuto la capacità di provvedere a noi stessi ma ora, nel circuito a senso unico imposto dall’economia, la vita si è allontanata così tanto da noi che può esserci tranquillamente confezionata davanti agli occhi, e rivenduta sotto forma di “ultimo modello”, senza che nemmeno ci si accorga di ciò. Dentro alle leggi dell’universo economico non è più riconoscibile nulla che non sia valutabile economicamente; e più l’economia ci subordinerà alle sue leggi, più perderemo il senso delle nostre attività che diventeranno appunto dei semplici prodotti in vendita. Fino al limite di concepire anche la compravendita di affetti, di salute, di conoscenza, di amore; fino al limite di poter credere che col denaro sia tutto possibile.

(1) Cfr, Mander, Quattro argomenti per eliminare la televisione, cit. pag 107.

(2) Cfr. Caillé, Critica della ragione utilitaria, cit. pag.53

(3) Cfr. Mander, Quattro argomenti per eliminare la televisione, cit. pag 108

– Enrico Manicardi, Liberi dalla civiltà