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NEGAZIONE, CONTRATTAZIONE, ACCETTAZIONE: COME LE IDEE DELL’ESTREMA DESTRA SI SONO RADICATE NELLA DOTTRINA CONSERVATRICE

-Traduzione di un articolo del 15.05.24 scritto da Leonardo Bianchi su Turning point

Negazione, contrattazione, accettazione: Come le idee dell’estrema destra si sono radicate nella dottrina conservatrice

Quando il 22 luglio 2011 il terrorista neonazista norvegese Anders Behring Breivik ha compiuto gli attentati di Oslo e Utøya, causando la morte di 77 persone, si aspettava che i suoi compagni “fratelli e sorelle nazionalisti” lo seguissero immediatamente.

Dopotutto, si trattava di una chiamata alle armi.

Il massacro stesso è stato un tentativo contorto di lanciare il suo manifesto di 1.518 pagine. Il trattato è in parte operativo – con l’obiettivo di ispirare e guidare i futuri terroristi – e in parte ideologico. I suoi contenuti sono fortemente plagiati da una vasta gamma di fonti di estrema destra, soprattutto dalla rete di blogger e siti web islamofobici che sono cresciuti sulla scia dell’11 settembre e che si sono autodefiniti “movimento anti-jihad”.

La tesi principale dell’aggressore è che i cosiddetti “marxisti culturali” avrebbero trasformato le società occidentali in “regimi multiculturalisti” oppressivi, infiltrandosi nelle scuole, nelle istituzioni e nei media, distruggendo i valori tradizionali occidentali e smantellando la cultura europea.

Il terrorista riteneva che non rimanessero opzioni pacifiche per invertire la rotta: secondo le sue stesse parole, “la lotta democratica non porta a nulla”. Solo una rivoluzione armata potrebbe rovesciare questi regimi. Per riprendere il controllo dei loro Paesi, i “conservatori culturali” come lui devono sbarazzarsi dei “traditori” che hanno permesso l’“islamizzazione nascosta” dell’Europa.

Tuttavia, nel periodo immediatamente successivo all’attacco, la chiamata alle armi è rimasta in gran parte senza risposta. Al contrario, l’estrema destra europea ha respinto attivamente Breivik e le sue azioni.

Siv Jensen, allora leader del Partito del Progresso norvegese – di cui Breivik era stato membro attivo – ha inveito contro gli attacchi “orribili e codardi”, che ha definito una “tragedia nazionale”. Altri leader dell’estrema destra in Europa si sono comportati allo stesso modo, bollando il terrorista come un “mostro”, un “pazzo” o un “assassino di massa”.

Anche la principale fonte di influenza ideologica di Brevik, il blogger islamofobo norvegese Peder “Fjordman” Jensen, ha condannato con forza gli attacchi: “Non voglio essere associato a Breivik e alle sue orribili azioni”, ha dichiarato in un’intervista al quotidiano norvegese VG. E ha proseguito: “Ha mostrato una brutalità estrema del tutto incomprensibile, e deve aver creduto di far parte di un gioco virtuale in cui lui era il supereroe”.

Mentre la maggior parte dell’estrema destra organizzata ha preso rapidamente le distanze dagli attacchi, ci sono state alcune eccezioni degne di nota all’interno del più generale ambiente di destra. Jacques Coutela, membro del partito francese Front National (ora Rassemblement National), ha salutato Breivik nel suo blog come “il principale difensore dell’Occidente”, paragonandolo a Charles Martel, un condottiero del settimo secolo che sconfisse con successo le forze musulmane invasori del califfato Umayyad nella battaglia di Poitiers.

Un europarlamentare italiano, Mario Borghezio del partito della Lega Nord (ora Lega), ha dichiarato a una radio che “alcune delle idee espresse da [Breivik] sono buone, a parte la violenza. Alcune sono ottime”. Nella stessa intervista, ha anche lodato “l’opposizione del terrorista all’Islam e la sua esplicita accusa all’Europa di essersi arresa prima di lottare contro la sua islamizzazione”.

Sia Borghezio che Coutela sono stati aspramente criticati anche all’interno dei loro partiti, e quest’ultimo è stato infine sospeso dal Fronte Nazionale. Ma al di là dell’indignazione è emersa una verità ineludibile: le idee di Breivik non sono nate dal nulla; erano profondamente radicate nella moderna ideologia di estrema destra, anche se pochi lo riconoscevano o osavano ammetterlo.

Queste idee non sono più marginali. All’epoca erano “considerate ai margini del discorso”, secondo Paul Greengrass, il regista britannico di 22 luglio, un film che racconta e drammatizza il massacro e il successivo processo di Breivik.

Ma oggi, ha ammonito Greengrass, “ciò che [Breivik] ha detto è divenuto mainstream, è retorica populista di destra. Il quadro intellettuale è lo stesso e si è diffuso nel mainstream”.

Quattro ondate di estrema destra

A distanza di oltre un decennio, i segni della radicalizzazione del discorso pubblico sono ovunque.

La teoria del complotto del “marxismo culturale”, un elemento centrale dell’ideologia frammentaria di Breivik, è stata citata sempre più spesso da rispettabili politici di destra su entrambe le sponde dell’Atlantico. Lo stesso è accaduto alla “Grande Sostituzione”, una teoria del complotto razzista e antisemita che accusa “la sinistra” e/o “le élite” di sfoltire la “popolazione indigena” (cioè la “razza bianca”) attraverso l’immigrazione, che ora è parte integrante della propaganda di destra. In Italia, la premier Giorgia Meloni ha ripetutamente promosso questa teoria per anni, guadagnandosi il titolo non proprio lusinghiero di “prima leader dell’Europa occidentale a sposare la teoria della grande sostituzione”.

Parole in codice dell’estrema destra, un tempo stigmatizzate come “remigrazione”, un eufemismo per indicare la deportazione, sono ormai entrate a far parte del lessico politico in Francia e Germania. Nel gennaio 2024, un’inchiesta dell’agenzia di stampa tedesca Correctiv ha scoperto che politici di alto livello di Alternativa per la Germania (AfD) si sono incontrati con attivisti identitari, neonazisti e uomini d’affari solidali per discutere un “piano di remigrazione”: la deportazione forzata di milioni di persone che vivono attualmente in Germania, compresi i cittadini tedeschi “non assimilati”.

Il piano generale prevedeva persino una destinazione finale verso cui “trasferire le persone”: uno “Stato modello” in Nord Africa. Il concetto, sottolinea Correctiv, “ricorda il piano nazista del 1940 di deportare quattro milioni di ebrei sull’isola di Madagascar”.

Nel frattempo, i leader della destra riecheggiano in modo inquietante i ragionamenti di Breivik nei loro discorsi. Nel 2022, ”l’uomo forte” ungherese Viktor Orbán ha affermato che “noi [ungheresi] non siamo una razza mista… e non vogliamo diventare una razza mista”, aggiungendo che i Paesi in cui “europei” e “non europei” si mescolano “non sono più nazioni”.

Intervenendo al lancio della campagna elettorale del partito francese di estrema destra Reconquete nel marzo 2024, la politica ed ex parlamentare Marion Maréchal ha dipinto un quadro terribile dell’Europa. Maréchal ha descritto un continente sotto assedio da parte di “molte potenze straniere e organizzazioni islamiste che traggono profitto dall’immigrazione anarchica nei loro sforzi di destabilizzazione, sovvertendo la nostra gioventù, organizzando qualcosa come una quinta colonna nei nostri Paesi e reclutando soldati jihadisti letali”.

Questi esempi dimostrano, come ha scritto il drammaturgo Ian Allen sul New York Times, che la retorica e le politiche dell’estrema destra sono sempre più intrise di “xenofobia apocalittica, cospirazioni antisemite, politica del terrore” – gli stessi temi ricorrenti, va notato, che permeano il manifesto di Breivik.

I confini che un tempo separavano l’estremismo di destra dal conservatorismo tradizionale non esistono piu e sembrano essersi dissolti per sempre. Questa è una caratteristica che contraddistingue l’attuale “quarta ondata” della politica di estrema destra, come la definisce il politologo Cas Mudde nel suo libro del 2019 The Far Right Today. Si tratta di un’ondata la cui formazione è in atto da molto tempo.

Secondo Mudde, la prima ondata è iniziata subito dopo la Seconda guerra mondiale e comprendeva organizzazioni “neofasciste” e “neonaziste” che intrattenevano un legame diretto con i regimi totalitari. La seconda ondata era costituita da partiti e movimenti che fondevano l’ideologia di destra con il populismo, come il Poujadism in Francia o il qualunquismo in Italia.

La terza ondata ha visto l’ascesa di nuovi “partiti populisti di destra radicale” che sono stati in grado di ottenere alcune conquiste elettorali, nonostante il loro rapido confinamento ai margini politici. Il caso più eclatante della terza ondata è il Partito della Libertà dell’Austria (FPÖ). Il partito guidato da Jörg Haider – definito “fascista yuppie” dai suoi critici – è arrivato secondo alle elezioni parlamentari del 1999 con il 26,9% dei voti.

L’anno successivo, l’FPÖ entrò in una coalizione con il Partito Popolare Austriaco (ÖVP), che scatenò proteste di massa in Austria e una crisi diplomatica in tutta Europa. L’Unione Europea ha imposto sanzioni, mentre i funzionari europei hanno ventilato l’idea di espellere il Paese dal blocco: “È troppo semplicistico affermare che dobbiamo tenere l’Austria in Europa a tutti i costi”, ha sostenuto l’allora ministro degli Esteri belga, Louis Michel, che ha continuato: “L’Europa può benissimo fare a meno dell’Austria. Non ne abbiamo bisogno”.

Con il senno di poi, il “caso Haider” non è stato un’anomalia o un caso isolato: è stato un presagio della quarta ondata a venire.

Integrare l’estremismo, normalizzare l’impensabile

Nel 2018, quasi vent’anni dopo, l’FPÖ torna al potere in un altro governo di coalizione con l’ÖVP, e la cosa è stata registrata a malapena dall’opinione pubblica: non c’è stata praticamente nessuna protesta in Austria o nell’UE, nessuna sanzione, nessuna indignazione internazionale. Niente di niente.

Era semplicemente normale, ma un nuovo tipo di normalità.

Se si dà un’occhiata alla mappa elettorale europea, non si può fare a meno di notare che il “cordone sanitario”, che era stato progettato per tenere l’estrema destra fuori dalle sale del potere, è andato in frantumi praticamente ovunque.

I partiti della destra radicale, scrive Mudde, “sono diventati mainstream e sempre più normalizzati”. Le loro idee e politiche sono “apertamente dibattute nei circoli tradizionali”. Sono al primo posto nei sondaggi in diversi Paesi: Austria, Francia, Paesi Bassi, Belgio e Svizzera. Altrove l’estrema destra è o il partito dominante della coalizione di governo, come Fratelli d’Italia in Italia, o un sostenitore cruciale di una coalizione di destra, come i Democratici di Svezia.

Ma come siamo arrivati a questo punto?

Non c’è un solo fattore che spieghi uno spostamento a destra di tale portata, uno spostamento che sembrava impensabile fino un paio di anni fa.

Per cominciare, i partiti di estrema destra hanno sfruttato abilmente le disuguaglianze economiche e le insicurezze sociali causate da diverse crisi sistemiche che hanno devastato l’Eurozona: la crisi del debito, la “crisi dei rifugiati” di metà 2010, la pandemia, l’inflazione, la crisi energetica e così via.

Poi, come ha sostenuto il politologo Vicente Valentim in una recente intervista al Guardian, sono stati anche in grado di sfruttare “la debolezza e l’esaurimento dei partiti tradizionali, la loro incapacità di affrontare i problemi chiave, la loro implicazione negli scandali”.

Nel tentativo affannoso di superare l’estrema destra, i partiti tradizionali di destra hanno adottato discorsi e politiche di estrema destra, soprattutto in materia di immigrazione, Islam, diritti sessuali e riproduttivi, criminalità urbana e clima. In alcuni Paesi, queste idee sono state spinte nel mainstream dai partiti di centro-sinistra, come i socialdemocratici danesi, che hanno attuato una delle politiche di asilo più dure e severe dell’UE.

Era un’idea terribile, ovviamente: più si cercava di vendere la copia, più la gente abbracciava l’originale. E questo, a sua volta, ha prodotto un circolo ancora più vizioso. Come dice sinteticamente Valentim, il successo elettorale dell’estrema destra “ spinge gli individui di destra radicale a sentirsi maggiormente a proprio agio nel mostrare le loro opinioni e induce un maggior numero di politici a unirsi a loro”.

Tuttavia, i partiti di estrema destra non sarebbero dove sono ora senza i media. I giornalisti spesso prendono per buone le provocazioni dell’estrema destra o, peggio ancora, ne amplificano volontariamente (e inconsapevolmente) le premesse, i termini, le parole in codice e persino le pericolose teorie cospirazioniste.

D’altro canto, i media sottovalutano e descrivono costantemente in modo errato questo movimento politico e i suoi sostenitori. Gli elettori dell’estrema destra sono rappresentati come maschi bianchi perennemente poco istruiti, “rimasti indietro”, se non addirittura come veri e propri neonazisti skin-head. Questi stereotipi pigri e dozzinali, ha detto Mudde, sono “molto lontani dal sostenitore medio dell’estrema destra di oggi, che è, in quasi tutti i modi, il ragazzo della porta accanto”.

Difendere il giardino

Inoltre, i partiti di estrema destra vengono dipinti o come piccoli partiti di poca rilevanza – cosa che non sono – o come nuove Camicie Nere sotto mentite spoglie.

Sebbene alcuni partiti – come Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni – siano orgogliosi delle loro radici “postfasciste”, non vogliono ripristinare un regime totalitario stile anni ’40 o sguinzagliare squadre paramilitari da pelle d’oca nelle strade delle capitali europee.

L’estrema destra contemporanea non guarda indietro: guarda avanti.

E il futuro assomiglia in modo agghiacciante all’Ungheria di oggi: “un’incubatrice dove si testano le politiche conservatrici del futuro”, secondo le parole di Viktor Orbán.

In senso formale, l’Ungheria è una democrazia liberale che non lo è più: si è trasformata in quella che il Parlamento europeo definisce “autocrazia elettorale”. I media sono nominalmente liberi, ma in realtà sono sottoposti ad una stretta sorveglianza da parte del governo. Lo Stato di diritto è sancito dalla Costituzione, ma il potere giudiziario è di fatto controllato dall’esecutivo. In superficie, la struttura dell’economia ungherese assomiglia a quella di altri Stati membri dell’UE; in realtà, si è trasformata in una forma di “capitalismo clientelare” gestito dagli oligarchi di Orban. Il primo ministro non è un dittatore moderno, ma solo un campione della “democrazia illiberale”. Non è nemmeno un razzista furioso o un rabbioso antisemita: vuole solo proteggere l’Ungheria dal mondo esterno e da George Soros.

Questo desiderio è ampiamente condiviso da altri leader dell’estrema destra: “Hanno accettato che il continente non sarà più protagonista nel XXI secolo”, ha scritto lo storico Anton Jäger in un op-ed del New York Times, che osserva: “il massimo che si può sperare è la protezione dalle orde… l’obiettivo dei presunti salvatori dell’Europa non è conquistare l’Africa, ma semplicemente tenere i suoi abitanti a sud del Mediterraneo”.

La teoria del complotto della “Grande Sostituzione” è così diffusa al giorno d’oggi perché si adatta perfettamente alla mentalità dell’assedio. Una mentalità che non è prevalente solo tra l’estrema destra, ma è – in modo allarmante – comune anche tra le alte sfere dell’Europa liberale.

Nel 2022, l’Alto rappresentante dell’UE per gli Affari esteri Joseph Borrell ha infelicemente paragonato l’Europa a un “giardino” minacciato dalla “giungla” circostante – il resto del mondo – che potrebbe benissimo “invadere il giardino” in qualsiasi momento.

“I giardinieri”, ha aggiunto, “dovrebbero prendersene cura”.

Alcuni “giardinieri” se ne stanno occupando attraverso centri di detenzione per migranti, un codice di condotta per ostacolare le operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale, chiatte galleggianti e piani di “remigrazione”. Altri, come Ander Behring Breivik e i suoi emuli, preferiscono armi, terrore e manifesti intrisi di sangue.

Ma sebbene siano convinti di farlo, questi “giardinieri” non stanno affatto proteggendo il “giardino”. Al contrario, lo stanno distruggendo dall’interno.