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TAZ NOTTI DISTINTE A LOCARNO – COMUNICATO

FORME DI ATTRAVERSARE UN TERRITORIO

non è più la Locarno di una volta (Mauro in giro a lok).

Venerdì 9 agosto. Qualcosa si agita nella tropicale notte del programmato ordine disciplinato del 77mo Festival del Film di Locarno. Senza nomi ne età, spontaneamente, tra istinto e informalità.

Sera. Venerdì. Le strade affollano. I bar dissetano. La festa si accinge. Dopo l’apatico “Electric Child”, la piazza proietta “Une femme est une femme”. Jean Luc Godard. Prove di sogno.

I quindici giorni di Festival dovrebbero essere un momento di particolarità. Dove tutto dovrebbe vibrare di un qualcosa di distinto. Perché tutto possa sembrare almeno un po’ diverso. Dovrebbe. Ma oggi è più che altro uno sforzo del pensiero. Un’autoconvinzione rassicurante. Da anni la nostra forma di attraversare il territorio è sempre più regolata in un controllato ordine disciplinare dove tutto si incastra e niente fuoriesce, E il Festival si inserisce nel meccanismo: strade rassicuranti e tracciate. Codici a barre e prezzi alle stelle. Luci spente in punto e musica guai a sgarrare. Alle tre non deve più girare mosca (mentre il primo treno per uscire dalla notte è alle 04:35!).

Finiti i tempi dei bagni e delle suonate di piano al Grand Hotel. Finiti i concertini al Canetti (toh è ancora lì vuoto.. ciao Walter :-), finiti i BarBon, i Rosita, i Lokarno Kalling, gli imbocchi alle feste ufficiali, gli striscioni contro il G8 sul palco, i fischi della piazza agli sponsor, le feste sotto il ponte. Quasi ridotta al lumicino quell’ebbrezza che ti faceva sognare, quell’aria scanzonata che aleggiava su Locarno per 10 giorni. Che ti faceva dire: fosse sempre così, da qui non me ne andrei..

Invece con quegli occhi spalancati sul mondo appena puoi da qui te ne vai. Per non sclerare male. Per non cadere nell’apatia quotidiana o per non andare a fare lo sbirro Poi ci si lamenta che è un paese per vecchi. Oggi fare qualcosa al di fuori degli schemi è quasi impossibile. Il “non si può” scandisce le nostre giornate e ogni giorno ne viene imposto uno nuovo. Non si può è la forma di gestione del territorio. Polizia in assetto da guerra ovunque. Controlli e videosorveglianza. Ogni tanto permettono qualche grida, ma senza esagerare e finisce quando lo diciamo noi.

Certo vivere qua è un privilegio non da poco, lontani da guerre e popoli massacrati e saccheggiati un po^ovunque. Da cui il nostro “quieto benessere”. Ma esserne consapevoli non vuol dire accettare passivamente l’immensa macchina disciplinare di controllo e polizia che attraversa il territorio.

Gabriela Domínguez Ruvalcaba nel documentario “Forme di attraversare un territorio”, ci racconta le donne indigene Tzotzil e di come uno spazio può essere pensato e vissuto in forma distinta. Una di queste innumerevoli forme si è provata a camminarla venerdì sera. Una camminata ancora incerta e leggera che con passi felini di un leopardo non ancora domo, spontaneamente, tramite il passa parola, si è affacciata sul prato dell’ex istituto Don Bosco – ormai abbandonato da tanto, troppo tempo – per riprendersi una notte. Per darsi un senso aggregativo e di cura al di fuori da logiche commerciali e di controllo. E mentre Anna Karina in piazza scandiva ribelle moi, je ne suis pas infame. Je suis une femme!, il prato del Don Bosco subito si riempiva e danzava, confermando un bisogno concreto e squarciando il velo di normalità tra sorrisi e presabbene di giovani e meno giovani, attrici/tori e addetti ai lavori, volti conosciuti o che semplicemente passavano di là. La novità e la voglia di respirare un’aria diversa erano grandi. Probabilmente troppo. E la voglia di libertà quando è tanta e spinge fa paura, inquieta.

L’arrivo in forze di un largo plotone di forze di polizia cittadine – accolto da fischi e canti di un mondo che continua a “détester la police” – non faceva che confermare il detto, incrinando l’angolo del sogno. Arroganti, incompetenti e incapaci di gestire la situazione, gli sbirri nostrani intimavano l’alt immediato: “non si può, non avete l’autorizzazione”. Tra sguardi minacciosi e voglia di intervento muscoloso di maschietti eccitati, si arrivava a un piccolo compromesso, anche e soprattutto per non farla finire male. Così dopo un’oretta si smonta e ci si prepara a partire. Non sia mai detto. Il responsabile di polizia (arrivato a giochi fatti), pensa bene di farsi notare e dall’alto di una stupida arroganza si arroga il coup de thèatre final fermando uno dei partecipanti per risalire agl* organizzator*. E tra batti e ribatti partiva il finale da alcuni auspicato: calci, pugni, guantini, spray al pepe e manganelli da parte di chi da anni è preparato e allenato a una guerra che non c’è. Ma che in qualche modo la deve applicare. Una guerra in cui il diverso, il non omologato è volutamente marcato come fonte di pericolo. Pericolo da raddrizzare tra botte e minacce sistematiche, che rimangono silenziati negli anfratti delle solitarie notti dei “semplici controlli di polizia”, in una prassi che va estendendosi e ripetendosi sempre più.

Ma venerdì sera succede anche altro. Succede che la gente rimane, non accetta, fa muro, si interpone e resiste. Si prende le botte, si difende come può ma non se ne va. E a forza di restare scaccia gli sbirri e i loro stupidi bollori e si riprende la notte. Che non sarà tanto, ma forse qualcosa. Tra il rimpianto di una serata solo in parte sbocciata e il bagliore di future nottate ancora in fiore.

O una suggestione (forse): a non farsi intimidire, a rompere lo stato di controllo, a sperimentare cammini e vite altre, a rifiutare i controlli d’identità e il pretesto della responsabilità singola per assumerla collettivamente, come parte un processo di liberazione che attraversa territori.

Per vivere giorni e

“Notti Distinte”