– Traduzione di un testo pubblicato su parlonsprisons.noblogs.org
ABOLIZIONISMO, OK MA…
Come affrontare la questione degli “assassini” e delle “persone davvero pericolose”?
Come trattare gli “stupratori”?
Abolire il sistema penale significa forse lasciare spazio al caos e alla “legge del più forte”?
Questi sono interrogativi che frequentemente vengono posti agli/alle abolizionistx. Per rispondere a tali quesiti, riproponiamo un estratto del recente e brillante libro Brique par brique, mur pas mur – Une histoire de l’abolitionnisme pénal.
Come affrontare la questione degli ‘’assassini’’ e le ‘’persone pericolose’’?
L’argomento della presunta minaccia rappresentata dalle “persone pericolose” è spesso usato contro gli abolizionistx. Esso richiama figure che popolano l’immaginario sensazionalistico del crimine, come il “serial killer” o il “delinquente sessuale recidivo”. Questa paura, benché legittima, che ha interpellato l’abolizionismo sin dalle sue origini, è stata storicamente la giustificazione ultima per l’esistenza del sistema penale, nonostante quest’ultimo costituisca un fallimento costoso, ingiusto e immorale.
Una risposta classica dell’abolizionismo consiste nel sottolineare che le persone davvero pericolose costituiscono una minima frazione degli individui criminalizzati e che non si può utilizzare la loro esistenza per legittimare il trattamento riservato al resto delle persone, spesso provenienti dai segmenti più svantaggiati della società.
Un’altra risposta, più critica e meno elusiva, sfida direttamente l’efficacia del sistema penale nel dissuadere, rilevare e gestire le “persone pericolose”. La maggior parte dei “crimini di sangue” non è commessa da individui che uccidono casualmente, ma si radica in condizioni sociali ed economiche disperate e in cicli di violenza preesistenti. Questi crimini, pur eccezionali e con un tasso di recidiva tra i più bassi, coinvolgono per lo più vittime vicine all’autore, e rispondono a dinamiche complesse di violenza familiare e relazionale.
Intervenendo sui sintomi e non sulle cause, le istituzioni penali non solo non risolvono tali problemi, ma spesso li aggravano. Come osserva il giurista statunitense Dean Spade, polizia e carcere sono esse stesse “assassini seriali”. Gli/le abolizionistx concordano sull’inefficacia della coercizione come soluzione duratura e sull’urgenza di affrontare collettivamente le radici sociali delle atrocità. Tuttavia, non vi è consenso su quali risposte immediate adottare. Vi sono dibattiti, ad esempio, sulla necessità di ricorrere a misure di contenimento e sulla loro durata e forma. Per alcunx abolizionistx, una società dovrebbe mantenere questa possibilità in situazioni eccezionali; per altrx, tali misure non sono una soluzione e bisogna privilegiare dispositivi comunitari inclusivi basati sulla guarigione, la responsabilizzazione e la giustizia trasformativa. In ogni caso, è fondamentale ricordare che il rischio zero e le soluzioni perfette non esistono.
Un’altra risposta frequente dei/delle abolizionistx consiste nel mettere in discussione il concetto stesso di pericolosità. La visione liberale della pericolosità, promossa dal sistema penale, si concentra sulle forme di violenza più visibili e intenzionali, trascurando i danni sociali più endemici e devastanti. Inoltre, criminalizzando eccessivamente i gruppi sociali ed etnici più vulnerabili, il sistema penalizza e stigmatizza come “pericolosi” coloro che subiscono già relazioni di dominio. Per proteggere davvero gli individui dai danni che minacciano la vita e i bisogni fondamentali, bisogna riconoscere che i crimini considerati dal sistema penale sono relativamente marginali rispetto alle violenze prodotte dalle strutture statali ed economiche, spesso in modo sistematico e legale.
Gli/le abolizionistx mettono dunque l’accento sulla violenza strutturale e istituzionale, che genera danni sociali di natura fisica, psicologica, economica, culturale ed ecologica. Una rappresentazione realistica della pericolosità dovrebbe concentrarsi meno sull’immagine del “psicopatico” che attacca individui a caso, e più su quella di decisori politici ed economici che, attorno a un tavolo, adottano o trascurano decisioni le cui conseguenze si riversano su intere popolazioni per lunghi periodi. Non si tratta solo di considerare i crimini di Stato (corruzione, guerre, genocidi, torture, violenze poliziesche e carcerarie) o i crimini economici (frodi finanziarie, danni ambientali, sfruttamento dei lavoratori), ma anche le politiche inique che abbandonano intere comunità, aggravano le disuguaglianze e perpetuano il capitalismo, il razzismo sistemico, il patriarcato e il validismo.
Le categorie di “crimine” e “pericolosità” non sono dunque neutrali, ma fungono da strumenti per mantenere i rapporti di potere esistenti, sacrificando determinate vite. Gli abolizionistx propongono di investire non in istituzioni penali costose, ma in strutture capaci di affrontare le cause profonde delle ingiustizie, creando una società in grado di responsabilizzare sia gli individui che la collettività.
Che fare degli ‘’stupratori’’??
Questo interrogativo, strettamente legato al precedente, è uno dei più ricorrenti. Spesso nasce da un’errata percezione dell’efficacia del sistema penale nel rispondere ai danni sessuali. In realtà, la figura del “violentatore” è spesso strumentalizzata per giustificare il sistema penale e l’inasprimento delle politiche punitive.
Le risposte del sistema penale sono raramente soddisfacenti per le vittime. I procedimenti giudiziari sono lunghi, incerti e traumatizzanti. La maggior parte dei casi non porta a condanne, e anche quando ciò avviene, poche vittime si dichiarano soddisfatte. Il sistema tende a mettere in atto una vittimizzazione secondaria nei loro confronti, imponendo categorie riduttive e dubitando della loro parola. Inoltre, concentrandosi sulla punizione dell’autore, non risponde ai loro bisogni di protezione, riconoscimento e ricostruzione.
La risposta punitiva è inefficace anche per i condannati. Le procedure giudiziarie non promuovono né la responsabilizzazione né la trasformazione degli individui; al contrario, contribuiscono a perpetuare e rafforzare il ciclo delle violenze sessuali. Data la violenza patriarcale che le caratterizza, le istituzioni penali, come osserva Dean Spade, possono essere considerate esse stesse “aggressori sessuali”. Inoltre, i procedimenti giudiziari per i reati di stupro tendono a sovracriminalizzare le persone non bianche e provenienti dalle classi popolari. In tal modo, il sistema penale strumentalizza le vittime di violenza sessuale per legittimare sé stesso, pur essendo esso stesso parte integrante del problema e contribuendo a rafforzare un ordine socioeconomico iniquo, il patriarcato e il razzismo sistemico.
Le violenze sessuali, tuttavia, si verificano in ogni ambiente, classe sociale e cultura. La ricerca e i movimenti femministi, come il recente fenomeno #MeToo, hanno messo in luce il carattere sistemico di tale fenomeno, che le istituzioni penali riescono a cogliere solo marginalmente. Non solo la maggior parte delle persone accusate giudizialmente di aver perpetrato violenze sessuali non è chiamata a rispondere dei propri atti, ma la schiacciante maggioranza di chi infligge il danno continua indisturbata. In altri termini, quasi la totalità dei “violentatori” è già in libertà. Ciò dimostra la debole funzione deterrente del sistema penale e la sua incapacità, a causa di un approccio individualizzante e depoliticizzante, di comprendere e affrontare adeguatamente le dinamiche sociali e strutturali delle violenze sessuali.
La maggior parte degli autori di violenze sessuali non sono sconosciuti violenti e pericolosi, bensì persone vicine alle vittime. Questo è uno dei motivi per cui le istituzioni penali sono così poco coinvolte. Spesso, le violenze— qualora siano riconosciute come tali dalle vittime — vengono affrontate tramite accordi extragiudiziali o, più frequentemente, non trovano alcuna forma di risoluzione. Tali soprusi non devono essere interpretati come azioni di individui devianti, ma come prodotti di rapporti di dominio legati al genere, alla classe, alla razza, all’età e alle disabilità. Essi affondano le loro radici nella “cultura dello stupro”, che minimizza, banalizza e, in alcuni casi, incoraggia le violenze contro donne e bambini.
Nel lungo termine, le lotte abolizioniste devono mirare a trasformare queste strutture sociali per prevenire tali violenze. Nel breve e medio termine, occorre fare ciò che il sistema penale non fa: partire dall’esperienza e dai bisogni delle persone coinvolte, creare rifugi per le vittime, affrontare le loro urgenze economiche e psicologiche, e proporre, se necessario, modalità di risoluzione basate sulla riparazione, sul dialogo e sulla responsabilità individuale e collettiva. Da decenni, gruppi di numerosi paesi lavorano per sviluppare pratiche di responsabilizzazione e giustizia riparativa e trasformativa, mirate non solo a riparare i danni causati dalle aggressioni sessuali, ma anche a trasformare gli individui coinvolti, le comunità e la società nel suo insieme.
L’abolizione del sistema penale non rischierebbe di favorire l’avvento della “legge del più forte”?
Oltre alle specifiche figure del “crimine” trattate in precedenza, l’idea dell’abolizione del sistema penale suscita spesso il timore che possa instaurarsi una “legge del più forte”. Nelle formulazioni più progressiste, si teme che l’abolizione conduca a una forma di governance liberale, in cui polizia e giustizia siano esercitate direttamente dagli individui, dando luogo a un controllo sociale informale, più arbitrario e ineguale, che finirebbe per avvantaggiare i soprusi dei più potenti. Le istituzioni penali, storicamente presentate come un “terzo neutrale”, se abolite, potrebbero lasciare spazio a forme di polizia o giustizia private, violente, vendicative e punitive.
Va sottolineato, innanzitutto, che già oggi esistono forme di punizione violente, sommarie ed extragiudiziali, esercitate da cittadini comuni che invocano una repressione più severa, anche nelle società in cui il sistema penale è pienamente operativo. Queste mobilitazioni securitarie intrattengono spesso rapporti ambigui con le autorità, oscillando tra diffidenza e connivenza, e sono strettamente legate alle politiche neoliberali. L’abolizionismo non ha nulla a che vedere con il vigilantismo, che non critica il sistema penale nel suo fondamento e nelle sue funzioni sociali, ma si limita a biasimarlo per la sua presunta mancanza di efficacia. In altre parole, il vigilantismo riproduce i miti propagati dal sistema penale, condividendone la logica e il progetto di mantenimento dell’ordine economico, sociale, razziale e sessuale. L’abolizionismo, al contrario, dimostra alle persone inclini all’autodifesa punitiva che è possibile sviluppare una visione d’insieme, capace di proporre soluzioni migliori rispetto all’approccio repressivo.
Un’altra critica ricorrente, che riduce l’abolizione alla “legge del più forte”, suggerisce che la scomparsa delle istituzioni penali favorirebbe i misfatti (economici, finanziari, ambientali, ecc.) dei potenti o delle élite. Bisogna ricordare, tuttavia, che le élite godono già di un “abolizionismo selettivo” di fatto. La maggior parte dei danni che esse provocano è depenalizzata, risolta tramite procedure di conciliazione o semplicemente ignorata dal diritto penale. Ciononostante, da una prospettiva abolizionista, la soluzione non risiede nella criminalizzazione dei responsabili dei danni, indipendentemente dal loro status sociale.
Certamente, l’abolizione del sistema penale potrebbe, in determinate condizioni (ad esempio con nuove tecnologie di sicurezza volte a proteggere capitali e proprietà), essere compatibile con una società (neo)liberale, dominata dalla “legge del più forte”, in cui prospererebbero il vigilantismo e i soprusi dei potenti. Tuttavia, l’abolizionismo non si limita all’abolizione in sé, che non costituisce nemmeno il suo obiettivo ultimo. Come osserva Ruth Wilson Gilmore, il progetto abolizionista, nella sua essenza, non rappresenta tanto un’”assenza”, quanto una “presenza”. Questo progetto non è altro che un punto di partenza strategico e un orizzonte mai pienamente raggiunto, che consente di ripensare i danni, le loro cause e le modalità di risoluzione, nonché di riconsiderare collettivamente il significato di termini quali “protezione”, “sicurezza” e “responsabilità”. In tal senso, l’abolizionismo è radicalmente incompatibile con i progetti di società di stampo liberale, che esaspererebbero il regime di disuguaglianza economica e di ingiustizia sociale attuale, fondato su un’etica della responsabilità individuale. Si tratta, invece, di un progetto globale di emancipazione, che, superando la mera risoluzione dei conflitti, aspira a inventare una società nuova.