Samah Jabr
Dietro ai fronti: cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione
2019
II Capitolo
LA RESISTENZA PALESTINESE: UN DIRITTO LEGITTIMO E UN DOVERE MORALE
Le soverchianti e incessanti atrocità perpetrate dal governo di Israele ci lasciano poche occasioni per riflettere sull’aspetto morale della nostra resistenza. Il più delle volte, la nostra reazione agli avvenimenti è immediata, istintiva ed emotiva. I pochi che ancora riescono a interrogarsi sulla questione morale, politica e strategica della nostra lotta, si trovano confrontati con le contraddizioni, l’assenza di alternativa e con i danni causati dalla guerra alla ragione e alla coscienza.
Quindi, come giudicare correttamente la resistenza palestinese tenendo conto della storia del conflitto israelo-palestinese nel suo complesso? L’occupazione della Palestina si basa su un’ideologia del XIX secolo che nega semplicemente l’esistenza di un popolo palestinese. Questa ideologia ha implementato un’agenda coloniale che vuol far valere un diritto divino su “una terra senza popolo”. In risposta a questa aggressione “teo-coloniale”, la resistenza palestinese ha adottato la strategia di una “guerra popolare di lunga durata“, al fine di vedersi riconosciuta in quanto nazione spossessata, piuttosto che “non esistente”.
Fino a oggi, i palestinesi non dispongono né di uno Stato né di un esercito. L’occupante ci sottopone al coprifuoco, alle espulsioni, alla demolizioni delle case, alla tortura legalizzata e a un assortimento altamente sviluppato di violazioni dei diritti umani. Non c’è alcun paragone giustificato tra il livello di responsabilità ufficiale attribuito ai palestinesi per le azioni di qualche individuo e la responsabilità di una violenza intensa e sistematica contro un’intera popolazione, praticata del tutto impunemente dallo Stato di Israele. I media statunitensi definiscono “terrorismo” la nostra ricerca di libertà e anche il palestinese interpreta il ruolo dello stereotipo internazionale del terrorista. Questa politica modella l’opinione pubblica occidentale e sfocia nel partito preso che si esprime nella tendenza a descrivere con un linguaggio neutro la violenza esercitata contro i civili palestinesi. Le vittime palestinesi si vedono ridotte a semplici statistiche anonime, mentre le vittime israeliane vengono presentate con termini e immagini commoventi.
Questa distorsione della resistenza palestinese impedisce qualsiasi dialogo razionale. Molti nostri sforzi per sfidare le regole arbitrarie dell’occupante sono qualificati come “terrorismo”. Noi siamo chiamati continuamente a scusarci e a condannare la resistenza palestinese – nonostante l’assenza di una definizione concorde del termine “terrorismo” e sebbene l’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite riconosca un “diritto naturale di legittima difesa, individuale o collettiva, nel caso in cui un Paese membro (…) sia oggetto di un’aggressione armata”
Come si spiega il fatto che la parola “terrorismo” sia applicata così volentieri a individui o a gruppi che utilizzano bombe artigianali e non agli Stati che impiegano armi nucleari e altri ordigni vietati internazionalmente per garantirsi la sottomissione all’oppressore? Israele, gli Stati Uniti e il Regno Unito dovrebbero figurare in testa alla lista degli Stati esportatori di terrorismo, a causa del loro ricorso agli attacchi armati contro la popolazione civile in Palestina, in Iraq, in Sudan e altrove. Ma “terrorismo” è un termine politico di cui si serve il colonizzatore per screditare quelli che resistono – nello stesso modo con cui gli afrikaner e i nazisti qualificavano come “terroristi” i combattenti per la libertà neri e francesi.
Esiste anche una tendenza, fra chi si oppone alla resistenza palestinese, a usare il termine “jihad”‘, impiegato come sinonimo di “terrorismo”. Essi riducono così il significato di questo termine alla nozione di morte. Jihad è un concetto ricco, che include l’invito a lottare contro gli aspetti meno nobili del proprio ego, a sforzarsi di compiere buone azioni a opporsi attivamente all’ingiustizia e a mostrarsi pazienti di fronte alle difficoltà. Non si tratta di fare uso della violenza contro le creature di Dio, né di non temere la morte difendendo i diritti della Sua creazione. Tuttavia, la violenza può costituire il mezzo di difesa di un essere umano razionale. Quando una donna reagisce con violenza contro un tentativo di stupro, è una forma di jihad.
Inoltre, jihad è un valore islamico, e non tutti i combattenti palestinesi sono musulmani. Il motivo per il quale giovani palestinesi sinceri e altruisti si fanno esplodere è un segreto che essi portano con sé nella tomba. Potrebbe trattarsi del frutto misterioso della vendetta che matura nel terreno fertile dell’oppressione e dell’occupazione; forse è la loro protesta viscerale di fronte a una spietata crudeltà o magari il tentativo di raggiungere l’uguaglianza con gli israeliani, sia pure nella morte, visto che nella vita ciò è per loro impossibile. Chi trascorre l’intera esistenza in condizioni inumane è purtroppo capace di compiere atti inumani. Che cosa resta alle migliaia di senzatetto di Rafah se non la loro resistenza? Non è l’Islam, è la natura umana – comune ai palestinesi credenti, profani e agnostici. Le nostre donne kamikaze non muoiono certo nella speranza di raggiungere le settanta vergini che le attendono in paradiso.
Un altro fattore decisivo per la resistenza palestinese è la storia desolante dei negoziati di pace e l’assenza di sostegno internazionale. I negoziati con Israele non ci hanno dato che la promessa d’impoverirci in modo autonomo, facendo dipendere nel contempo la base di un accordo durevole dalla volontà dei potenti e dalla normalizzazione dell’illegalità. La cosa più eclatante in questo processo di pace è l’assenza di un negoziatore onesto. Le Nazioni unite sono incapaci di adottare le misure atte a garantire l’applicazione dei nostri diritti. Il mondo non ha proposto alcun rimedio alle innumerevoli ferite di cui soffrono i palestinesi. Gli USA hanno a più riprese fatto uso del loro diritto di veto al Consiglio di sicurezza per opporsi al largo consenso dato alla presenza di osservatori internazionali in Cisgiordania e a Gaza. L’accanita negazione dei diritti dei palestinesi, unita all’assenza di dichiarazioni o azioni efficaci da parte della comunità internazionale, ci ha costretti a renderci conto che l’autodifesa era la nostra unica speranza.
Il diritto internazionale accorda a ogni popolazione che combatte un’occupazione illegale il diritto d’impiegare “ogni mezzo necessario di cui [può] disporre” per liberarsi, e gli occupati “hanno il diritto di richiedere e di ricevere un sostegno” (cito qui parecchie risoluzioni dell’ONU). La resistenza armata è stata utilizzata nella rivoluzione americana, nella resistenza afghana contro l’Unione sovietica, nella resistenza francese contro i nazisti e persino nei campi di concentramento nazisti o, in forma più nota, nel ghetto di Varsavia. Allo stesso modo, anche la resistenza palestinese scaturisce da una situazione di oppressione. Il grado di violenza può variare – in realtà, in molti casi la resistenza è non violenta. Malgrado tutti gli ostacoli, le persone danno prova di resilienza e continuano a vivere, studiare, pregare e coltivare una terra occupata. In certi casi, esse resistono attivamente ricorrendo alla violenza. Questa forma di resistenza può essere difensiva (e quindi moralmente accettabile, mi sembra), come quella attuata dai combattenti del campo profughi di Jenin di fronte all’avanzata delle macchine di morte israeliane. Essa può però anche assumere la forma di atti offensivi inaccettabili, come l’attacco armato dei civili israeliani intenti a celebrare la pasqua ebraica.
In ogni caso, si tratta sempre di individui che scelgono una o l’altra di queste forme di resistenza, e le loro scelte non devono definire quelle dell’intero Paese. Inoltre, come s’è potuto constatare, che la resistenza sia violenta o meno, il governo israeliano “libero e democratico” e il suo esercito le oppongono una violenza di Stato deliberata. La morte della militante pacifista statunitense Rachel Corrie (schiacciata da un bulldozer dell’esercito israeliano nel 2003] ne è la prova sufficiente.
“Dov’è il Gandhi palestinese?” si meravigliano alcuni. I nostri Gandhi sono in prigione o in esilio o sepolti. E il nostro popolo non si compone più di centinaia di milioni di persone; siamo appena 3.300.000, privi di armi e di difese, di fronte a sei milioni di israeliani, tutti potenzialmente soldati o riservisti. Non si tratta di una colonizzazione industriale, gli israeliani praticano la pulizia etnica per impossessarsi della terra a esclusivo vantaggio degli ebrei.
Suona ironico constatare che solo pochi di coloro che esortano i palestinesi a imitare Gandhi si soffermino a riflettere sulla natura del sionismo, causa principale dell’occupazione. Eppure, nel 1938 Gandhi stesso aveva già sollevato il dubbio sul postulato del sionismo politico. “La mia simpatia per gli ebrei non mi fa dimenticare le esigenze di giustizia. L’appello a una dimora nazionale per gli ebrei non mi seduce particolarmente. L’argomento utilizzato si fonda sulla Bibbia e l’intensità del desiderio degli ebrei di ritornare in Palestina. Perché, come gli altri popoli della terra, gli ebrei non dovrebbero fare la loro casa nel Paese dove sono nati e dove si guadagnano da vivere?” Gandhi ha chiaramente rifiutato l’idea di uno Stato ebraico nella Terra promessa, facendo notare che “il concetto biblico della Palestina non [era] un’entità geografica”.
La resistenza violenta è il risultato di un’occupazione militare inumana, che infligge punizioni arbitrarie senza processo, impedisce addirittura la possibilità di procurarsi di che vivere e distrugge sistematicamente ogni prospettiva di futuro. I palestinesi non hanno invaso la terra di un altro popolo per uccidere ed espropriare. Non aneliamo affatto a farci saltare in aria per terrorizzare gli altri. Domandiamo nient’altro che ciò di cui dispongono giustamente tutti gli altri popoli: una vita decente sulla nostra terra natia.
Ciò che più preoccupa nelle critiche riguardanti la nostra resistenza è il fatto che esse trascurano la nostra sofferenza, la nostra spoliazione e la violazione dei nostri diritti più elementari. Quando ci assassinano, le critiche restano impietrite. La nostra pacifica lotta quotidiana per poter vivere decentemente non impressiona. Quando, però, alcuni di noi si lasciano andare alla rappresaglia e alla vendetta, allora indignazione e condanna si elevano contro l’insieme della nostra società, La sicurezza di Israele è ritenuta più importante del nostro diritto a mezzi di sussistenza di base; i bambini israeliani sono considerati più umani dei nostri e il dolore israeliano più inaccettabile del nostro. E quando ci ribelliamo alle condizioni inumane imposteci, i nostri critici ci assimilano a dei terroristi, nemici della vita e dell’umana civiltà.
Ma non è per acquietare le critiche che dobbiamo ripensare la nostra resistenza. È per il fatto che ci preoccupiamo del morale dei palestinesi e della loro etica. Il diritto internazionale e i precedenti storici di numerosi Paesi riconoscono a un popolo il diritto di prendere le armi nella sua lotta di liberazione, quando subisce un’oppressione coloniale. Perché la situazione sarebbe differente nel caso dei palestinesi? L’obiettivo di una regola del diritto internazionale non è proprio quello di essere universale? Gli Stati Uniti hanno fatto dei diritti alla vita, alla libertà e all’aspirazione alla felicità i loro diritti umani più importanti. È appropriato che il diritto alla vita sia menzionato per primo. Dopotutto, senza il diritto di restare in vita, di essere al sicuro e di difendersi dalle aggressioni, gli altri diritti si svuoterebbero di senso. Il diritto alla vita implica necessariamente il diritto all’autodifesa.
Noi palestinesi siamo continuamente confrontati a un’occupazione brutale, il petto esposto e le mani nude. Credo necessario il dialogo tra palestinesi e israeliani, ma i negoziati non possono costituire la sola opzione, essi devono essere accompagnati dalla resistenza all’occupazione. Mentre gli israeliani ci parlano, continuano a costruire nuove colonie e ad erigere avventatamente un muro che restringerà e violerà ancora di più i nostri diritti. Perché mai dovremmo abbandonare il diritto alla resistenza e continuare a vivere in questo letale regno dell’assurdo?
Vivere oppressi e sottomessi all’ingiustizia è incompatibile con la salute psicologica. La resistenza non è soltanto un diritto e un dovere, ma anche un rimedio per gli oppressi.
Indipendentemente da ogni opzione strategica o pragmatica, la nostra resistenza rimane l’espressione e l’affermazione della nostra dignità umana […]