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IO SONO CONFINE

RIFLESSIONI SULLE FRONTIERE

Passaggi tratti dal libro Io sono confine di Shahram khosravi

I. Nel novembre 2019 abbiamo festeggiato il trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. Nel medesimo arco di tempo il numero dei muri eretti lungo i confini si è quadruplicato.
L’industria delle frontiere è diventata un business gigantesco. Un muro fisico è un lusso che non tutti gli Stati possono permettersi. Quelli eretti sulla frontiera Stati Uniti-Messico, quello israeliano e quello lungo il confine tra Arabia Saudita e Iraq sono costati tra 1 e 4 milioni di dollari per chilometro. Tenuto conto delle spese di manutenzione, si arriva a un giro d’affari globale di parecchi miliardi, e in crescita costante. Ciascuno di questi muri è stato eretto da uno Stato ricco contro una nazione povera.
Sono barriere che separano gli Stati-nazione ma anche due diversi modi di sperimentare il mondo, due diversi sistemi di vita. Ogni confine tra Stati è anche in certa misura un confine di classe. Non sorprende che i più insanguinati siano quelli tracciati tra il mondo ricco e quello povero.
Il regime delle frontiere punta a tenere le persone «al loro posto» all’interno della gerarchia di classe. Le pratiche di confine come modalità per tenere sotto controllo la mobilità dei lavoratori sono cruciali per preservare la sperequazione salariale tra cittadini e non-cittadini, tra il Nord globale e il Sud globale. Le frontiere sono un problema per i poveri. Perché i ricchi possono sempre accedere a un mercato legale per superarle, comprando la cittadinanza di altri paesi oppure investendo in attività o in immobili all’estero.
Le frontiere impongono l’immobilità. Tuttavia, in parallelo con le tecniche di frontiera finalizzate all’immobilità e al confinamento, esiste un secondo meccanismo di controllo della società che opera attraverso una costante mobilità forzata. Le persone sono infatti costrette a un andirivieni infinito non solo tra paesi, legislazioni e istituzioni, ma anche tra campi di accoglienza e campi di espulsione, tra richieste d’asilo e ricorsi contro le deportazioni, tra riconoscimenti provvisori e ritorno alla clandestinità, tra un periodo d’attesa e l’altro. È una circolarità perpetua in cui si vive in uno stato di «non arrivo», di radicale precarietà o, per usare l’espressione di Fanon, di «ritardo».
È importante precisare che una frontiera non si esaurisce nella semplice linea tracciata tra Stati, ma coinvolge molti altri attori e innumerevoli pratiche, economie e storie. Le categorie «indesiderate» non vengono respinte soltanto al confine ma anche dopo averlo varcato. A prescindere da quanto tempo abbiano passato in un dato paese e da quanto integrati siano in una data società, alcuni non smettono mai di essere stranieri: quelli con la pelle nera; gli ebrei in passato e oggi i musulmani; i rom.

II. Le frontiere e i loro muri sono eretti in modo da apparire senza tempo – come se esistessero da sempre e dovessero durare in eterno. I muri vorrebbero negare l’evidente, ovvero che le frontiere cambiano e, presto o tardi, scompaiono. La storia insegna che i muri sono destinati a cadere, e molti di quelli del passato oggi sono soltanto mete turistiche, come la Grande muraglia cinese o il Vallo di Adriano. Per paradosso, sono diventati un’attrazione per gli stranieri che avevano lo scopo di tenere a distanza.
Tuttavia, una volta poste in essere, frontiere e barriere assumono vita propria. Suscitano emozioni e idee anche dopo la loro caduta. I muri di confine modificano il territorio sociale e continuano a esercitare un forte impatto sull’immaginario e sui rapporti sociali anche molto dopo il loro crollo. Il loro significato simbolico è ben più grande della loro presenza fisica. Le frontiere producono nuove soggettività. I muri fisici durano poco, ma il loro impatto sugli schemi mentali si protrae per molto tempo. La frontiera segnala che chi sta dall’altra parte è diverso, indesiderato, pericoloso, contaminante, persino non umano.
Ma non è solo il confine a generare nuove soggettività: anche violarlo le genera. Durante la cosiddetta «crisi dei profughi» del 2015 e del 2016, quando i governi blindarono le frontiere per respingere migranti e rifugiati, questi inscenarono proteste intonando slogan come «aprite i confini» e «libertà, libertà», a volte nella propria lingua:Infitah («apertura» in arabo) e Azadi (libertà in persiano).
Sono parole d’ordine che si sentono da decenni in Medioriente. Inneggiando alla libertà e all’apertura, quei manifestanti avevano collegato le lotte per l’Infitah in tutto il mondo arabo e per l’Azadi in Iran e Afghanistan alla lotta per l’apertura e la libertà in Europa. Riprendendo i termini «libertà» e «apertura» mettevano a nudo il legame esistente tra gli steccati oppressivi innalzati in Europa e gli steccati oppressivi innalzati a Kabul, Damasco, Istanbul, Teheran e in tutta la Palestina.
Ovunque venissero fermati, i migranti sedevano simbolicamente sui binari delle ferrovie. Era un esplicito gesto politico, messo in atto da soggetti consapevoli. Mettendosi letteralmente di traverso, quei migranti utilizzavano i propri corpi per fermare il traffico ferroviario. I loro corpi erano diventati una forza politica in grado di bloccare un regime di mobilità che li escludeva. La parola «movimento» indica l’azione di muoversi e spostarsi ma anche un’attività organizzata che sfida le strutture esistenti e punta al cambiamento sociale. In entrambi i sensi, il movimento dei trasgressori di confini aveva generato una soggettività che attraverso un gesto eminentemente politico sfidava il regime delle frontiere e l’ordine esistente delle cose. II cammino percorso insieme tramutava un viaggio individuale in un progetto comune: un movimento collettivo e sociale.
L’attraversamento non autorizzato dei confini, la violazione del regime delle frontiere e la contestazione della sua autorità sono a tutti gli effetti azioni politiche.

III. Oltre che espressione dell’immaginario nazionale, le frontiere sono anche un’esperienza fisica. Esistono per essere percepite. Sono progettate per avere il massimo della visibilità, con cartelli, colori, recinzioni e cemento.
Di più: sono progettate per causare sofferenza e ferire i corpi. Il filo spinato lacera la carne di chi cerca di scavalcarlo. I muri sono alti proprio per massimizzare i danni dell’eventuale caduta di chi si azzarda a scalarli. E se non dalla frontiera in sé, i viaggiatori senza documenti vengono aggrediti dalle sue guardie. Lo stupro come «balzello» estorto per concedere il permesso di passare dall’altra parte è una prassi ricorrente. Oltretutto ogni confine ha un suo specifico sapore. Per esempio, attraversando le zone desertiche tra il Messico e l’Arizona, i migranti sperimentano il confine come un sapore metallico dovuto all’arsura, a una sete sempre più tormentosa. Ma oltre ai sensi, le frontiere devono colpire anche le emozioni. Per i viaggiatori indesiderati il confine sa di umiliazione e vergogna. Un esempio è la mortificazione quotidiana e pubblica subita dai palestinesi ai check-point israeliani. Infine le frontiere – con i loro muri incombenti, le torrette di guardia, il filo spinato, i soldati armati e i cartelli minacciosi – hanno lo scopo di suscitare paura. Come ha detto la ministra danese per l’Immigrazione, Inger Stojberg, nel dicembre del 2018: «Sono indesiderati e se ne accorgeranno».
Per i corpi che non toccano i confini e non ne vengono toccati, i confini non esistono. Le frontiere sono selettive e discriminatorie. La regolamentazione della mobilità opera attraverso una selezione basata sulle disuguaglianze di sesso, genere, razza e classe. Supera il confine soltanto chi è utile, chi è produttivo. Le frontiere sono una tecnica per calcolare il valore degli stranieri.

IV. In quest’era di feticismo dei confini, oscurata dall’ombra dei muri in costruzione, c’è una domanda urgente, politica ma anche intellettuale, cui va data risposta: che cosa si vede se guardiamo il confine dall’altra parte?
Se guardiamo il confine dal lato opposto non possiamo non storicizzarlo. Un approccio alle frontiere intellettualmente onesto e politicamente responsabile deve infatti basarsi su una storicizzazione radicale in grado di denaturalizzare e politicizzare ciò che l’odierno regime delle frontiere ha naturalizzato e spoliticizzato. In tempi recenti abbiamo assistito all’avvento di un corpus di ricerche su questo tema ancora circoscritto ma in crescita. Partendo da una storicizzazione radicale, questi studi dimostrano che le frontiere e le pratiche di frontiera sono in un certo senso pratiche coloniali. L’attuale regime delle frontiere si radica nelle genealogie coloniali del trasferimento forzato, che hanno storicamente fornito un efficiente laboratorio in cui sperimentare le nuove politiche di controllo delle popolazioni.

[…]

Viviamo in un’epoca di trionfo dei confini, l’era del loro feticismo. I confini determinano l’aspetto del mondo. Le mappe rappresentano il mondo come un mosaico di unità, di nazioni, con profili precisi e aree distinte per colore.
Le frontiere hanno lo scopo di designare differenze. Le odierne cartine politiche ricordano, nelle parole di Ernest Gellner, lo stile pittorico di Modigliani: «Superfici piatte e distinte, separate le une dalle altre da contorni che rendono evidente il punto in cui una finisce e l’altra comincia, con poche o nessuna ambiguità o sovrapposizione» (1990:139-140). Non c’è soluzione di continuità tra confini. Sembrano inviolabili ed eterni. Vengono tracciati in corrispondenza delle barriere naturali, come i fiumi, le montagne e i deserti, così da apparire a loro volta naturali. In questo modo vengono presentati come primordiali, senza tempo, parte integrante della natura.
I confini sono il simbolo degli Stati sovrani. Uno Stato-nazione è immaginabile (Anderson 1983) solo attraverso i suoi confini. Il sistema dello Stato-nazione si fonda sul nesso funzionale tra un luogo determinato (territorio) e un ordine determinato (lo Stato), un nesso mediato da regole automatiche per la registrazione della vita, individuale o nazionale (Agamben 2000:42). Nel sistema dello Stato-nazione, la zoé, o nuda vita biologica, viene immediatamente tramutata in bios, la vita politica o cittadinanza. La naturalizzazione del collegamento tra vita/nascita e nazione è lampante nel linguaggio. I termini «nativo» e «nazione» hanno la stessa radice latina di «nascere».
I confini degli Stati-nazione sono giunti a costituire un ordine naturale in molte dimensioni dell’esistenza umana (Malkki 1995a:5). Non si tratta più dei semplici limiti di uno Stato: «l confini plasmano la nostra percezione del mondo […]. Il pensiero dei confini è un elemento fondamentale della nostra consapevolezza del mondo» (Rumford 2006: 166). I confini sono il punto di riferimento essenziale del nostro senso di comunanza, di identità. Non sono soltanto realtà esterne ma seguono le «linee del colore», situate ovunque e in nessun luogo (Balibar 2002:78).
Spesso l’ordine nazionale delle cose viene spacciato per il loro ordine normale, o naturale. Si dà per scontato che le nazioni «reali» siano collocate nello spazio e contrassegnate dai loro confini (Malkki 1992:26). Secondo Malkki, la naturalizzazione del regime delle frontiere conduce a una visione del superamento dei confini come patologia (1992:32).
La condizione di profugo – o, nel gergo botanico dell’ordine nazionale delle cose, lo sradicamento – viene presentata come la conseguenza di un modo di essere «innaturale».
I trasgressori di confini spezzano il legame tra «natività» e nazionalità, mettendo in crisi il sistema dello Stato-nazione.
In base a questa visione, la violazione del regime delle frontiere costituisce una violazione di norme etiche ed estetiche. Nel sistema dello Stato-nazione i richiedenti asilo non identificati e i migranti senza documenti rappresentano un «elemento inquietante soprattutto perché, spezzando l’identità tra uomo e cittadino, tra natività e nazionalità, mettono in crisi la finzione originaria della sovranità» (Agamben 1995). Non sorprende dunque che siano visti come una minaccia politica e simbolica alla sovranità e purezza nazionali. In Purezza e pericolo (1966), Mary Douglas esamina la distinzione tra puro e impuro come meccanismo per preservare la struttura sociale e determinare ciò che è moralmente accettabile. I migranti senza documenti e i clandestini che violano i confini sono contaminati e contaminanti proprio in quanto non classificabili (Malkki 1995a; 1995b). Sono «transizionali e dunque particolarmente inquinanti, poiché non sono né una cosa né l’altra, o forse sono entrambe; non sono né qui né là […] e quindi come minimo si collocano in una via di mezzo tra tutti i punti fissi riconosciuti nello spazio-tempo della classificazione culturale» (Turner 1967:97).
Attraverso il discorso e la normativa politico-giuridica, questo sistema crea un essere umano politicizzato (il cittadino di uno Stato-nazione), ma anche un sotto-prodotto, un «residuo» politicamente non identificabile, un «essere non più umano» (Schütz 2000:121). Rimbalzati tra Stati sovrani, umiliati, presentati come corpi contaminati e contaminanti, i richiedenti asilo apolidi e i migranti irregolari sono esclusi e diventano gli scarti dell’umanità, condannati a vivere esistenze sprecate (Rajaram e Grundy-Warr 2004).
Il moderno Stato-nazione si è arrogato il diritto di presiedere alla distinzione tra vite produttive (legittime) e vite da scartare (illegittime) (Bauman 2004:33).
Queste vite di scarto sono l’homo sacer del presente. Agamben (1998) desume l’espressione homo sacer dal diritto romano, usandola per descrivere un’esistenza e condizione che definisce «nuda vita». L‘homo sacer è stato privato della sua appartenenza alla società e pertanto dei suoi diritti. Il diritto romano non considerava «omicidio» l’uccisione degli homines sacri. Da individuo politico, l‘homo sacer viene ridotto a un semplice corpo biologico o naturale, spogliato di tutti i diritti. Secondo Agamben, il sistema degli Stati-nazione distingue tra nuda vita (depoliticizzata), zoé, e una forma di vita politica, o bios. L‘homo sacer è un corpo completamente depoliticizzato, diverso dalle forme di vita politicizzate incarnate nel cittadino (Rajaram e Grundy-Warr 2004). In quanto homines sacri, i migranti irregolari sono esposti non soltanto alla violenza dello Stato (esercitata dalle normative, dagli accordi politici, dalle leggi, dalle priorità e dalle forze dell’ordine) ma anche a quella dei privati cittadini; sono totalmente inermi (Rajaram e Grundy-Warr 2004:57).
Il superamento «illegale» dei confini viola l’aspetto sacramentale dei rituali e dei simboli di frontiera, ed è configurato come reato perseguibile per legge. Il sistema dei confini è governato dalla criminalizzazione: nella formulazione di Simon (2007), la «governance mediante criminalizzazione» fa del delitto e del castigo il contesto istituzionale che definisce come criminale un segmento della popolazione (per esempio i poveri, i migranti «clandestini», i richiedenti asilo e i «terroristi») e lo esclude (vedi anche Rose 1999:259). Il governo mediante criminalizzazione si auto-giustifica sostenendo la necessità di proteggere i cittadini dalla minaccia degli anti-cittadini (vedi Inda 2006).
Trasgressori di confini, poveri, senzatetto, clandestini e richiedenti asilo non identificati sono tutti visti come una minaccia al benessere del corpo sociale. La penalizzazione dell’immigrazione «costituisce e impone confini, sorveglia i non-cittadini, li bolla come pericolosi, malati, disonesti o diseredati, li espelle o nega loro l’accesso» (Pratt 2005:1).
Stabilita l’«indesiderabilità» dei non-cittadini, la «governance mediante criminalizzazione» la implementa con controlli più severi sui confini esterni e interni, con la detenzione e la deportazione forzata. Lo Stato imprime il confine sui corpi stessi dei migranti (Wilson e Weber 2008).
Per alcuni gruppi di persone – ogni tipo di migrante e chi vive nelle zone di frontiera – il superamento dei confini è un aspetto inevitabile della vita, un modo di essere nel mondo (Willen 2007). Basati su una modalità di pensiero razzista, i confini regolano gli spostamenti degli individui. Mentre una categoria ristretta di persone gode diritti di mobilità assoluta, la stragrande maggioranza è prigioniera dei confini. La regolamentazione della mobilità opera attraverso una selezione sociale improntata alla discriminazione sessuale e di genere, razziale e di classe.
La selezione sociale dei viaggiatori comincia molto prima che arrivino alla frontiera (Wilson e Weber 2008). Coloro che provengono da nazioni «sospette» sono sottoposti a un alto grado di controllo attraverso un processo stringente di concessione o negazione dei visti.

Tuttavia, i confini sono anche spazi di opposizione e resistenza. Il superamento «illegale» dei confini e il confine stesso si definiscono in relazione reciproca: è l’esistenza di un confine a costituire la base di queste forme di mobilità (Donnan e Wilson 1999:101). Anche migrazione e confini si definiscono in rapporto reciproco. Laddove esiste un confine ne esisterà anche il superamento, legale o illegale.