– Tradotto dall’inglese
CONCENTRARCI SULL’AMICIZIA PER ANDARE OLTRE LA FAMIGLIA NUCLEARE
Ci vuole un villaggio. Una o due persone non possono essere tutto. Una o due persone non possono ragionevolmente soddisfare tutti i nostri complessi bisogni di sopravvivenza. Eppure, spesso cerchiamo di far entrare la nostra vita in questa cornice: concentrandoci in modo sproporzionato su unx partner romanticx sopra ogni altro rapporto, cercando un “anima gemella” che soddisfi tutte le nostre esigenze, dando priorità alla famiglia nucleare o ai parenti biologici rispetto alle amicizie, o romanticizzando l’idea di un migliore amico. In tutte queste dinamiche, mettere certe relazioni o persone su un piedistallo sopra ogni altra finisce spesso – ironicamente – per creare problemi e aumentare la pressione su quelle relazioni, riducendone la salute e sostenibilità a lungo termine.
Concentrarsi su unx solx partner romantico o su un’unità familiare nucleare isolata può portare disagio su tutti i fronti. Il nostro benessere e la nostra liberazione dipendono dall’essere immersi in un ecosistema relazionale diversificato, in cui ogni rapporto sia potenzialmente ugualmente importante – in altre parole, una comunità.
Le amicizie possono rendere la nostra quotidianità più vivibile e sostenibile. C’è qualcosa di profondamente liberatorio in una relazione in cui ciascuna parte si sveglia ogni mattina e sceglie semplicemente di prendersi cura dell’altra e impegnarsi, senza alcun obbligo contrattuale o norma sociale imposta. Le amicizie possono essere ancore di salvezza facilmente trascurate, ma molto più accessibili da coltivare di quanto pensiamo. Possono essere una “casa” dove stabilità, sicurezza e impegno derivano non da catene, ma dalla cura intenzionale.
La famiglia nucleare è un concetto recente – e non funziona. La famiglia nucleare è emersa solo un paio di secoli fa, quando il colonialismo si trasformava in capitalismo. Per garantire il dominio e il controllo, gli imperi coloniali hanno separato le persone dalle loro comunità con ogni mezzo necessario: genocidi per colonizzare terre, schiavitù transcontinentale per mantenere una fornitura costante di forza lavoro a beneficio delle piantagioni. Lo stato-nazione che venne dopo si occupò di spezzare le comunità rimaste: ad esempio, bambinx indigenx strappatx alle tribù e mandatx in campi di concentramento.
L’obiettivo è sempre stato quello di spezzare i legami comunitari e distruggere stili di vita collettivi che prosperavano attraverso collaborazione, cooperazione e condivisione abbondante delle risorse. Con l’erosione del concetto di comunità, il modello di famiglia nucleare ha preso piede.
Questa struttura familiare ridotta è stata uno strumento strategico per dividere e isolare le persone, rendendole più facili da controllare, governare e sfruttare. Porta con sé molteplici livelli di oppressione legati a genere, razza e sessualità. Una piccola famiglia in cui solo pochi legami sono iper-valorizzati come “importanti” è, in ultima analisi, un’unità isolata che si percepisce come separata dal collettivo. Questo genera ostilità tra le famiglie, che finiscono per competere segretamente tra loro per successo e ricchezza – proprio ciò che il sistema vuole. Ogni famiglia cerca di acquistare beni in maniera esclusiva invece di condividerli, anche quando non ha senso che tuttx possiedano individualmente le stesse cose. Le persone sono costantemente esauste e lottano per sopravvivere facendo da sole ciò che, per millenni, si è sempre fatto in modo collettivo.
Le popolazioni migranti sono state create proprio da questi imperi, che hanno distrutto le nostre terre d’origine e fabbricato una scarsità di risorse. Ora promettono mobilità sociale e una vita leggermente migliore solo se lasciamo indietro la nostra terra, la nostra gente e la nostra cultura.
La famiglia nucleare ci viene presentata come “casa” – ma spesso è una gabbia. Che si tratti di migrazione internazionale, di spostamenti per motivi di studio o lavoro, o di essere costretti a lasciare un quartiere ormai gentrificato: la maggior parte di noi è migrante, in cerca disperata di un luogo in cui mettere radici. La famiglia nucleare ci viene proposta come quel rifugio, e così cerchiamo di farcela andare bene per disperazione. Ogni suo aspetto – dal matrimonio autorizzato dallo Stato al fare figlx – è un costrutto sociale inculcato fin da piccolx, accompagnato dalla pressione sociale a raggiungere tali “traguardi”, pena l’esclusione.
Quindi no, non c’è nulla di “naturale” nella famiglia nucleare. È una costruzione che ha richiesto secoli di sangue e che lo Stato continua a imporre dispiegando risorse enormi.
L’unità familiare è abbastanza piccola da garantire un flusso costante di lavoratorx da sfruttare, ma mai abbastanza ampia da offrire reale supporto – tanto che le persone non arrivano mai a rendersi conto che potrebbero essere libere. Non è un caso che la famiglia diventi spesso una gabbia che genera risentimento tra lx membrx, che si sentono paradossalmente più solx che mai, pur essendo legatx a pochi rapporti. “Legatx” è la parola chiave. Qualsiasi relazione che ci porta ad avere paura di restare completamente solx senza di essa, sarà inevitabilmente fonte di dolore.
Il problema potrebbe non venire dalla relazione in sé. Quando emergono problemi nei rapporti romantici o genitoriali, spesso sono segnali di un ecosistema relazionale squilibrato. Il problema è spesso la quantità sproporzionata di tempo e attenzione che dedichiamo a quei legami, trascurando gli altri – soprattutto le amicizie. Invece di concentrarci esclusivamente nel riparare relazioni già ferite e sovraccariche, attingere alle risorse esterne – costruendo amicizie solide – può essere la salvezza di cui avevamo bisogno. Pensala così: la salute di un singolo legame dipende dalla salute dei molti altri legami che ognunx di noi ha. Più il nostro amore è decentralizzato, più ogni rapporto sarà sano. Quando esistono molte dinamiche, ogni relazione può prosperare in modo più equo e bilanciato, grazie all’assenza di una gerarchia imposta tra le persone.
Hai già sentito parlare della “decentralizzazione” nel contesto politico anarchico. L’oppressione è una manifestazione della centralizzazione del potere: quando pochx hanno un controllo sproporzionato sulle risorse e possono decidere per tuttx. La centralizzazione crea gerarchie – strutture inique per natura – che si tratti dello Stato o del mettere alcune relazioni su un piedistallo. Al contrario, tendere verso sistemi eterogenei e diversificati è ciò che rende efficace la resistenza.
L’anarchia relazionale è un’estensione di questi valori nel campo dell’amore. Ma l’idea che molteplicità e diversità siano concetti fondamentali non è solo politica – è culturale, ancestrale. Le comunità collettiviste sono esistite per secoli fuori dal dominio coloniale. Ed è anche così che funziona la natura. Un ecosistema diversificato è forte, resiliente, adattabile – un intreccio di molteplici collaborazioni inter- e intra-specie, dove nessun tipo di relazione ha un’importanza superiore. Tutte sono necessarie per mantenere l’equilibrio, e uno squilibrio in una sola relazione (spesso causato da stress esterni, come il capitalismo o la distruzione ambientale) crea onde che si fanno sentire ovunque.
Lezioni apprese dalla mia vita personale sul decentralizzare l’amore e costruire amicizie reciproche. Ho spesso visto la prospettiva post-rivoluzionaria della “comune” glorificata a sinistra, senza attenzione ai dettagli scomodi di cosa significhi realmente. Non si può passare da una condizione di isolamento a una comunità interdipendente e collettivista dall’oggi al domani. Per essere sostenibile, questa transizione dev’essere graduale.
Avere amici non basta: dobbiamo imparare cosa significhi essere interdipendenti, dove la sopravvivenza dell’unx è legata a quella dell’altrx. È un muscolo da sviluppare con il tempo, e sarà scomodo e liberatorio, spaventoso e stimolante, difficile e liberatorio.
Anche se sono cresciuta in un contesto comunitario, ho vissuto tutta la mia vita adulta negli Stati Uniti, dove ho inseguito per anni il modello della famiglia nucleare. Ironia vuole che siano state le amicizie a rendere la mia vita degna di essere vissuta, anche quando il sistema mi stava schiacciando.
Solo negli ultimi anni ho iniziato a coltivare le amicizie con la stessa intenzionalità che riservo ad altri legami. Era sotto i miei occhi: la realtà che le nostre relazioni sono tutto– soprattutto quelle in cui scegliamo di stare solo per cura reciproca, senza obblighi esterni. E sto ancora lottando per rendere l’anarchia relazionale una realtà concreta e non solo un ideale teorico.
Cosa possiamo fare OGGI per rendere la vita più vivibile, gioiosa e resiliente?
Che competenze relazionali dobbiamo praticare da oggi, invece di idealizzare una futura comune come se apparisse magicamente? Quali impegni dobbiamo iniziare a prendere, già oggi, nelle nostre amicizie per alleviare il nostro malessere quotidiano?
Alcune lezioni che ho imparato nella mia lotta finora:
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Pensare fuori dagli schemi della famiglia nucleare fa paura – ed è normale. Quando i problemi emergono in un matrimonio o nel rapporto genitori-figli, si tende a concentrare ancora più energia su una dinamica già in crisi, spesso peggiorando la situazione.
Molti di noi trascorrono anni in dinamiche inique, provando e riprovando da solx a farle funzionare con approcci che già sappiamo essere fallimentari. -
Ci aggrappiamo a ciò che conosciamo – anche se ci fa male. Perché restiamo bloccatx in questi schemi? Perché inseguiamo a tutti i costi l’amore romantico ideale e il modello familiare “perfetto”? Perché ci è familiare. Uscire da queste strutture relazionali ristrette, che ci sono state inculcate fin da piccolx, è spaventoso. Ma è parte del processo.
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Potresti dover “fare uno sforzo” per trovare persone – e va bene così. In una società capitalista (soprattutto in Occidente), ogni aspetto della vita quotidiana è progettato per rendere difficile costruire legami solidi. Tali legami minaccerebbero le fondamenta del sistema.
Il lavoro ti esaurisce, il cibo arriva da scaffali senz’anima, e tutto è pensato perché non serva interagire con gli altri. È dura costruire una comunità sana se non si ha un modello collettivo di riferimento. Ma cercare attivamente la connessione è, in sé, un atto liberatorio
Ayesha Khan