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LA TURCHIA INVADE E OCCUPA MILITARMENTE IL KURDISTAN DEL SUD

– Tradotto da Réseu Serhildan

-26/07/24

LA TURCHIA INVADE E OCCUPA MILITARMENTE IL KURDISTAN DEL SUD

Il 15 giugno, la Turchia ha lanciato una vasta operazione di occupazione del Kurdistan del Sud. Questo articolo spiega cosa sta succedendo, le ragioni dell’intervento turco e la posizione degli attori regionali e internazionali. Illustra inoltre la situazione militare, la strategia turca, la resistenza civile e la guerriglia, spiegando le conseguenze di questa invasione sulla rivoluzione del Rojava e sul movimento di liberazione del Kurdistan.

All’inizio del 2024, lo Stato turco ha nuovamente annunciato il lancio di operazioni su larga scala volte a “eliminare i guerriglieri” del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) dalle montagne del Kurdistan del Sud (Bashur – Iraq del nord), nelle zone di difesa di Medya. Gli attacchi si sono intensificati in aprile, con bombardamenti nella regione di Zap e Metîna, a nord del monte Garê.

In un comunicato stampa del 1° luglio, il Congresso nazionale del Kurdistan (KNK) ha riportato le conclusioni del canale curdo iracheno Channel 8, che ha parlato di 300 carri armati e veicoli blindati [dispiegati] nel Kurdistan iracheno negli ultimi dieci giorni” e ha rilevato la presenza di circa “1.000 soldati turchi e dei loro veicoli blindati [che sarebbero] stazionati nella provincia di Duhok dal 25 giugno”. In assenza di statistiche ufficiali sulla presenza globale turca nel Bashur, risulta difficile fornire una cifra, ma il KNK afferma che “fonti locali riferiscono che più di 110 basi militari sono state stabilite fino a 35 km all’interno del territorio iracheno [e che] la Turchia ha effettuato più di 800 attacchi aerei contro la regione del Kurdistan e la provincia di Ninive [dove si trovano Shengal e Makhmur], causando la morte di 8 civili. E analizza: Lo Stato turco mira a controllare le montagne del Garê, il che potrebbe portare a una perdita significativa del 70-75% del territorio del Governo regionale del Kurdistan a Duhok.

Questa perdita di autonomia è già avvertita sul campo dalla popolazione locale, che viene uccisa e ferita dai bombardamenti, ma che si trova anche faccia a faccia con i soldati turchi durante i controlli stradali, gli interrogatori o le evacuazioni forzate dei loro villaggi. Per il KNK, ciò costituisce una occupazione de facto della regione, che mina la sovranità dell’Iraq e del popolo curdo.

Le ragioni dietro all’invasione turca

Quest’ultima operazione su larga scala fa parte di una guerra a lungo termine condotta dalla Turchia contro qualsiasi rivendicazione curda di autonomia. La presenza dello Stato turco in Iraq risale al 1997, quando combatté il PKK a fianco delle truppe del PDK. Questo avveniva ben prima che Erdogan salisse al potere. Le truppe turche si ritirarono parzialmente all’epoca, ma rimasero stazionate nella base aerea di Bamarni su invito di Masoud Barzani, con il via libera degli Stati Uniti nel 1997.

In una recente intervista, Duran Kalkan ha ricordato che la ripresa di questa guerra e gli attacchi transfrontalieri della Turchia contro l’Iraq e la Siria sono iniziati nell’agosto 2016, dopo un incontro tra Masoud Barzani e il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ad Ankara. Hanno fatto seguito alla conquista del nord della Siria da parte delle forze di autodifesa curde YPG/YPJ e alla proclamazione di una federazione della Siria settentrionale e orientale al confine meridionale con la Turchia.

Da allora, Erdogan e il suo governo hanno costantemente cercato di impedire la liberazione di nuovi territori, sostenendo anche segretamente Daesh. Il Congresso nazionale del Kurdistan (KNK) ha denunciato “l’opportunità colta dalla Turchia” dopo la Primavera araba, che “si è estesa all’Iraq e alla Siria e ha rimodellato la regione”, di “affermare finalmente la propria influenza, [in un piano] per ripristinare i confini [ottomani] di Misak-ı Milli [di una Turchia i cui confini comprendono parte dell’Iraq e della Siria]”.

L’avvio dell’operazione giunge inoltre in un contesto interno molto particolare per la Turchia: il regime di Erdogan e dell’AKP-MHP, al potere da oltre 20 anni, è segnato da inflazione, crisi economica e da una cocente sconfitta elettorale nelle elezioni municipali del 31 marzo. Quest’ultimo si caratterizza con la progressione del CHP (partito kemalista) da un lato e del DEM (Partito per l’uguaglianza e per la democrazia dei popoli), che ha (ri)vinto nuovi distretti e municipi nel sud-est della Turchia, nonostante i massicci brogli, la propaganda mediatica, le intimidazioni e la corruzione. La lotta contro il “nemico esterno” rappresentato dalla guerra contro i curdi è una questione ben nota. Già a gennaio di quest’anno, il Presidente turco ha giocato nuovamente le sue carte – le stesse che aveva usato per invadere il Rojava – affermando la necessità di una zona “cuscinetto” a 30 km di profondità nel Territorio iracheno per “proteggere la Turchia” dalla “minaccia terroristica curda”. Egli deve inoltre legittimare le basi esistenti e le spese per le armi associate al loro mantenimento. Sul versante militare, le esportazioni di armi turche sono in piena espansione e sono rese possibili – come quelle di Israele – dall’argomentazione del combat proven, cioè testato su popolazioni, spesso colonizzate, come i curdi o i palestinesi.

Mentre le invasioni di Al-Bab e Jarablus (2016), Afrin (2018) e Serêkaniyê e Tall AByad (2019) in Siria hanno portato all’annessione de facto di queste regioni, le operazioni contro i guerriglieri del PKK nelle zone di difesa di Medya (soprannominate “Artiglio” – della tigre, dell’aquila, della spada ecc. dal 2019, l’ultima delle quali ha avuto luogo nel 2022) si sono concluse con un fallimento clamoroso. Sebbene la Turchia sia riuscita a costruire nuove basi, non è stata in grado di isolare le zone di guerriglia o di impedirne gli spostamenti tra Turchia, Siria e Iraq (cioè Bakur, Rojava e Bashur), finalità ormai dichiarata di questa operazione.

Ad aprile, la Turchia ha firmato 26 accordi di partenariato in materia di energia, commercio e altro con il governo centrale iracheno e, alla presenza dei ministri degli Emirati e del Qatar, un accordo specifico per la costruzione della “Strada dello sviluppo” (DRP), una futura rotta commerciale che collegherà il porto di Faw, nel sud dell’Iraq, alla Turchia. Questo progetto competerebbe con la Via della Seta proposta dalla Cina e passante per l’Iran, nonché con il percorso proposto dall’India attraverso gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e Israele. Il progetto, del valore di 17 miliardi di dollari e che dovrebbe creare 100.000 posti di lavoro, prevede l’installazione di centri logistici, complessi industriali e la potenziale integrazione di oleodotti e gasdotti. La guerriglia e l’autonomia curda rappresentano un ostacolo su questa strada.

Un intervento sostenuto a livello regionale e internazionale

Nel nostro articolo dello scorso aprile sulle minacce di invasione, abbiamo fatto riferimento alla necessità del governo turco di ottenere il via libera dai suoi partner economici e militari. Questo era l’obiettivo del viaggio in Iraq e poi nel Kurdistan iracheno (il 22 aprile).

Un’altra tappa importante in questa strategia doveva essere una visita (la prima dal 2019) dove Erdogan avrebbe dovuto incontrare Joe Biden. La cancellazione di quest’ultimo ha suscitato scalpore, per via del sostegno diplomatico della Turchia ad Hamas (nonostante i suoi legami economici con Israele). Tuttavia, Hakan Fidan, ministro degli Esteri turco, ha avuto l’opportunità di parlare con Anthony Blinken, segretario di Stato USA, in occasione di una riunione della NATO a fine maggio.

In una recente conferenza stampa, il portavoce del Dipartimento di Stato USA ha eluso le domande dei giornalisti sulla legittimità delle operazioni turche e sull’impatto sui civili della regione del Kurdistan, ribadendo la posizione degli Stati Uniti e chiedendo la cooperazione tra governo turco, federale iracheno e della regione del Kurdistan. Questi commenti, espressi per la prima volta dal vice portavoce principale del Dipartimento di Stato USA Vedant Patel durante un briefing la settimana precedente, sono stati visti come un “via libera” alle operazioni transfrontaliere della Turchia.

Anche per quanto riguarda l’UE non c’è nulla di chiaro, ma anche i Paesi dell’Unione sono rimasti in silenzio dall’inizio delle operazioni. In una recente conferenza stampa, il CDKF (Consiglio democratico curdo in Francia) ha denunciato i presunti rapporti tra i servizi segreti turchi e la Francia. L’intelligence turca avrebbe fornito informazioni su cellule Daech che stavano pianificando attacchi in territorio francese, in particolare durante i Giochi Olimpici. Il silenzio di Macron è una delle cose che hanno ricevuto in cambio?

Per quanto riguarda l’Iraq, sebbene il via libera sia stato dato durante la visita di aprile, il ministro degli Esteri iracheno Fouad Hussein ha negato che il governo iracheno abbia autorizzato le operazioni militari turche. Si è contraddetto: in altre dichiarazioni ha sostenuto gli attacchi della Turchia al Kurdistan iracheno, citando le “attività del PKK”. Al contrario, dopo aver inizialmente sostenuto la cooperazione diretta con la Turchia, ora si dice favorevole a un dialogo regionale più ampio… In ogni caso, le precedenti dichiarazioni irachene contro le intrusioni turche non hanno mai evitato alla Turchia di fare ciò che voleva.

Sul versante curdo iracheno, la situazione rimane più o meno invariata: il PDK collabora pienamente con lo Stato turco e sta estendendo sempre più il suo sostegno militare alla potenza occupante. Duran Kalkan, ad esempio, ha sottolineato che una delle novità dell’attuale attacco turco è la facilità con cui le unità corazzate, i carri armati e i veicoli turchi possono muoversi sulle strade sotto il controllo del Partito Democratico del Kurdistan e dell’Iraq. I suoi interessi sono ovviamente, quello di competere con il PKK per l’egemonia politica in Kurdistan, ma soprattutto quello di garantire la continuità delle partnership economiche con la Turchia – e in particolare l’esportazione del petrolio curdo iracheno (30% della produzione del Paese).

La sua collaborazione si estende fino a mettere il bavaglio alla stampa: sabato 13 luglio, 3 membri di Channel 8 (un canale con sede a Sulaymaniyeh e finanziato dal UPK) sono stati arrestati dalle forze del PDK ad Amedî mentre si occupavano dell’invasione dell’esercito turco. Un incidente simile si era già verificato nella zona. Dall’inizio dell’invasione, il 3 luglio, solo Voice of America (VoA) Kurdish e Rudaw sono stati brevemente autorizzati a svolgere il loro lavoro di informazione. I giornalisti freelance e tutti i media critici sono stati severamente limitati.

Da parte sua, l’Unione patriottica del Kurdistan (UPK) ha preso le distanze dal PDK e ha recentemente denunciato gli attacchi militari della Turchia, condannando “le attuali violazioni della sovranità della regione del Kurdistan e dell’Iraq”, che descrivono come “chiare violazioni del diritto internazionale volte a disturbare la pace e a violare la sovranità irachena” e che presentano “rischi per […] la sicurezza dei cittadini”.

Un mese di attacchi e di strenua resistenza 

L’obiettivo della Turchia nel Bashur è la regione di Bahdinan (o Metina), a nord-est delle montagne, dove si trova la catena montuosa di Garê, una delle più importanti roccaforti strategiche della guerriglia e un’area densamente boscosa che è sempre stata un rifugio per i guerriglieri. L’esercito turco ha tentato di avanzare in questa zona nel febbraio 2021 con una grande operazione di assalto aereo che ha coinvolto circa 600 forze speciali, ma ha dovuto ritirarsi dopo quattro giorni di combattimenti senza riuscire a conquistare un punto d’appoggio.

Sembra che l’esercito turco stia ora cercando di consolidare la sua posizione a Metina, raccogliendo truppe lungo questa linea per spingersi più a sud verso le montagne Garê, cercando di dividere la vasta area montuosa in tre aree distinte, che intende occupare una dopo l’altra.

Due sono le zone teatro di attacchi e di una forte resistenza: innanzitutto Sargale (Sergelê), a nord e a est della città di Amêdi, dove la Turchia sta avanzando verso sud, cercando di prendere il controllo della collina di Bahar, un’area montuosa a est del villaggio di Amêdi. Più a sud, nella zona di Sheladiz (Shiladizê), i soldati turchi stanno cercando di raggiungere la strada Amedi – Sheladiz.

Questa regione pullula di soldati turchi, le forze armate del PDK (peshmerga, polizia, ecc.) e le poche forze armate federali irachene non sono in numero sufficiente per intervenire. Le forze “anti-sommossa” del PDK sono state addirittura inviate nella regione di Behdînan, vicino alla città di Amedî, all’inizio di luglio per reprimere gli abitanti che bloccavano le strade per protestare contro l’occupazione del loro territorio. Il governatore di Sireka, nello Xakurkê, ha recentemente dichiarato a Rudaw, un’agenzia di stampa affiliata al PDK, che oltre il 46% della sua provincia non è più sotto il suo controllo ma sotto quello turco.

Secondo diverse ONG, gli attacchi sono efferati anche nei confronti della popolazione civile. RiseUp4Rojava descrive “centinaia di villaggi […] sotto tiro” e incendi appiccati deliberatamente dai soldati. “Alcuni villaggi nella regione di Metina sono stati evacuati, [l’esercito li minaccia] di attacchi aerei se non saranno evacuati entro 24 ore”.

Analizzano: “La strategia dell’esercito turco di bruciare villaggi e foreste ricorda le tattiche usate negli anni ’90 contro il movimento di liberazione curdo nel Kurdistan del Nord. In quegli anni, lo Stato turco ha spopolato e bruciato più di 4.000 villaggi curdi per privare i guerriglieri della loro base e del sostegno della popolazione. Sembra che l’esercito turco stia tentando la stessa strategia nel Kurdistan del Sud.

Di fronte a ciò, le Forze di Difesa del Popolo (HPG), l’ala militare del PKK, si oppongono strenuamente a questa mossa. I guerriglieri, che ora dispongono di armi terra-aria in grado di colpire i droni turchi, hanno abbattuto due elicotteri Sikorsky nella regione di Zap (a nord di Garê), vicino al confine turco, il 10 e il 22 luglio. Nella regione di Sergelê, le forze di resistenza hanno condotto diverse operazioni in cui sarebbero stati uccisi diversi soldati turchi e distrutti vari veicoli blindati – in un attacco a un convoglio militare. L’HPG sostiene di aver abbattuto 18 droni turchi da questa primavera. Tra il 14 e il 16 luglio 2024, hanno effettuato a loro volta azioni aeree distruggendo basi e veicoli dell’esercito turco, sempre nella regione di Sergelê.

Serdar Yektaş, portavoce dell’HPG, ha dichiarato: “Nonostante le centinaia di migliaia di soldati, tecnici, traditori, trafficanti e bande dello Stato turco, la guerriglia controlla la regione. Chi non conosce l’arte della guerra fraintende il dominio, [che] non è la presenza di un gran numero di soldati in un’area [ma la capacità] di colpire il nemico quando e dove si vuole”.

In un articolo pubblicato questa domenica, Pîrdogan Kemal analizza la situazione militare sul terreno della campagna RiseuUp4ROjava: “Con il sostegno della NATO, lo Stato turco ha indirizzato completamente il suo

esercito verso le moderne tecnologie e ha basato la sua strategia sugli attacchi aerei. Tuttavia, con questa strategia, l’esercito ha ottenuto il peggior risultato nella storia della guerra contro la guerriglia. Lo Stato turco si sta dirigendo passo dopo passo verso un abisso strategico”. Spiega che le nuove armi frutto dei recenti sviluppi tecnologici, come i droni, vengono ora utilizzate dai guerriglieri e sostiene persino che i guerriglieri hanno “aumentato il più possibile la loro curva di sviluppo nello spazio aereo”, ottenendo così “importanti conquiste con risorse limitate”.

Questo “sistema di difesa aerea” e questa “capacità di colpire dall’aria” hanno, secondo il militante, cambiato la guerra e spaventato l’esercito turco”. E conclude: “Oggi c’è una guerriglia che si sta evolvendo nel campo della scienza e della tecnologia, che sta creando un equilibrio nella guerra grazie alle armi che ha sviluppato contro gli elementi aerei, e che sta portando avanti azioni efficaci riducendo a zero il rischio di perdite. Le forze di occupazione turche sono quindi sottoposte a un blocco tattico”.

Il Rojava è ancora minacciato?

All’inizio dell’anno, nelle prime dichiarazioni pubbliche del governo turco che annunciavano l’operazione, la minaccia era aperta non solo alle zone di difesa di Medya ma anche al Rojava, dove Erdogan aveva promesso di condurre una nuova operazione.

Tuttavia, non sembra essere in programma alcuna operazione su larga scala: nessun movimento di truppe sul terreno e nessuna preparazione speciale. La guerra a bassa intensità che infuria da anni prosegue, con costanti attacchi di droni, il sequestro dell’acqua e l’incendio dei campi. Lo stesso approccio è stato adottato a Shengal, dove l’8 luglio una squadra di giornalisti è stata bersagliata da un attacco di droni: il giornalista di Cira TV Murad Mirza Ibrahim è morto in seguito alle ferite riportate. La Federazione Internazionale dei Giornalisti (IFJ) ha condannato l’attacco turco e ha chiesto un’indagine sull’omicidio e che “i responsabili siano consegnati alla giustizia”.

L’inazione della Turchia nel Rojava è forse legata ai recenti sviluppi delle relazioni tra il Paese e la vicina Siria, con la ripresa del dialogo resa possibile dalla mediazione dell’Iraq. Questo avviene dopo anni di attriti tra i due regimi, dovuti in particolare al fatto che la Turchia ospita l’opposizione siriana e alle successive invasioni del territorio siriano. A breve si terranno a Baghdad i colloqui da cui dipende il futuro della rivoluzione e dell’AANES nel nord-est della Siria. Sebbene la Siria chieda alla Turchia di ritirarsi dal territorio nazionale, ciò non pregiudica in alcun modo la sua posizione sui territori curdi, di cui ha comunque perso il controllo.

Tuttavia, l’operazione contro i guerriglieri di Bashur avrà conseguenze per l’intera regione, come ha denunciato il KNK: “Il leader del MHP, Devlet Bahçeli (partner di coalizione di Erdogan) […] ha spinto per l’annessione di Kirkuk e Mosul, che ha presentato pubblicamente come province turche. La Turchia sta alimentando le tensioni tra i popoli della regione e sta armando le fazioni turcomanne. La strategia [neo-ottomana] non minaccia solo i curdi, ma rischia di avere ramificazioni più ampie, tra cui l’occupazione dell’Iraq e della Siria, l’instabilità regionale e lo spostamento massiccio di popolazioni.

Le azioni in corso in Kurdistan hanno implicazioni globali a causa dell’importanza geopolitica storica della regione”.

Per il Congresso politico curdo, la soluzione sta nel “porre fine al militarismo [turco], [ogni forza deve agire] incoraggiando la Turchia a liberare Abdullah Öcalan e ad avviare negoziati con lui. Un processo di dialogo simile a quello avvenuto tra il PKK e il governo Erdoğan nel 2013-2015 potrebbe portare stabilità alla Turchia – e all’intera regione – risolvendo la questione curda”.

La rete RiseUp4Rojava, dal canto suo, sottolinea l’importanza della lotta contro questa “progressiva occupazione del Kurdistan meridionale e dell’Iraq settentrionale”, che deve mobilitarsi tanto quanto le ultime invasioni del Rojava: “Non si tratta di un’operazione minore, ma di una grande offensiva strategica dell’esercito turco. Un attacco a Garê avrebbe conseguenze devastanti per la popolazione civile e porterebbe il conflitto tra la guerriglia e le forze turche a un livello superiore”. Si rivolgono ai/alle militanti e alle reti di solidarietà: “Dobbiamo usare i nostri mezzi per attirare l’attenzione su questo problema e garantire che coloro che sostengono lo Stato turco, sia fornendo tecnologia che finanziando la guerra, siano ritenuti responsabili”.