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LO SPORT E LA SORVEGLIANZA DEI CORPI: IMANE KHELIF E LE OLIMPIADI PARIGINE

Lo sport e la sorveglianza dei corpi: Imane Khelif e le Olimpiadi parigine

Chi si indigna contro il presunto assalto delle “teorie gender” allo status quo ha un intramontabile baluardo: “Se hai il pene sei un uomo, se hai una vagina sei una donna”. A quanto pare, però, è sufficiente che una donna produca o abbia prodotto dei livelli di testosterone sopra la media (perché, teniamolo a mente, ogni individuo, a prescindere dai propri cromosomi, produce testosterone) per mandare in tilt il sistema.

La pugile algerina Imane Khelif si è battuta lo scorso 1 agosto alle Olimpiadi di Parigi contro Angela Carini che, dopo qualche manciata di secondi, si è ritirata perché “non era giusto”, senza salutare né stringere la mano all’avversaria.

Se formalmente l’atleta italiana non vi ha fatto riferimento, non si può non scorgere nel suo gesto una correlazione con le polemiche che hanno preceduto e seguito l’incontro, legate a fatti risalenti al 2023, quando Khelif venne esclusa dai Mondiali femminili di pugilato perché i risultati dei suoi esami medici non erano idonei ai criteri per l’accesso alle categorie femminili dell’International Boxing Association (IBA), associazione tra l’altro non riconosciuta dal CIO.

Tuttavia, l’atleta è stata regolarmente ammessa alle Olimpiadi e l’incontro con Carini ha destato l’attenzione transfobica di media e politici italiani, che l’hanno sostanzialmente definita (senza addentrarci nelle loro infamanti citazioni dirette), una donna trans. Tuttavia, non risulta che Khelif lo sia, né sono stati pubblicati dati o dichiarazioni della stessa atleta che lo abbiano mai indicato. Il processo di transizione di genere, inoltre, rientra nell’illegalità nello Stato algerino.

In una situazione senz’altro più complessa di come la stampa si è affrettata a descriverla, il dato che attualmente appare appare più attendibile è che Khelif presenti una condizione di iperandroginismo, che la porterebbe dunque a produrre un livello di testosterone più alta della media, secondo altre fonti, si specula che l’atleta sia una persona intersessuale. Il presidente dell’IBA Umar Kremelev aveva infatti comunicato, sebbene in modo piuttosto vago e senza supporto medico verificabile, la presenza di cromosomi XY nell’atleta.

La questione dovrebbe farci porre un quesito sulle limitazioni che comporta basare le competizioni sportive su un binarismo che entra ancora una volta in crisi, eppure nello sport è proprio il livello di testosterone a determinare il confine tra chi può gareggiare nelle competizioni femminili e chi no, nonostante i suoi massimi livelli siano posti senza una base scientifica univoca che evidenzi la presunta superiorità fisica da esso determinata. Inoltre, la differenza nella produzione del testosterone non è che una delle differenze genetiche che si possono riscontrare. E dunque perché nello sport le differenze genetiche vengono elogiate come straordinarie in alcuni casi e tacciate di ingannevole mostruosità dall’altro? E perché a subire la seconda di queste due opposte sorti sono il più delle volte atlete razzializzate?

Ed è soprattutto negli eventi più importanti e mediatizzati che le pratiche e i criteri oppressivi coloniali influenzano maggiormente le politiche sportive internazionali. Successe a Serena Williams, che rimane ad oggi una delle atlete più testate per il doping nella storia del tennis. E ancora, a Caster Semenya, a cui fu chiesto di abbassare farmacologicamente i livelli di testosterone per competere, e che fu sottoposta a disumanizzanti test del sesso. Trattamento che fu riservato anche alla mezzofondista ugandese Annet Negesa, la cui “negligenza medica” a seguito di un intervento chirurgico causò danni al suo corpo di entità tale da terminare la sua carriera.

Ora, diversi giocatori di basket presentano una condizione chiamata “acromegalia”: è una sempre una condizione che determina una sovrapproduzione di ormoni, in questo caso della crescita. Ebbene, quale giocatore di basket è mai stato definito troppo alto per giocare? Quale giocatore ha abbandonato la sfida perché l’elevazione dell’avversario lo sovrastava, lamentando che ci fosse dell’ingiustizia in questo?

Il plurimedagliato nuotatore statunitense Michael Phelps ha un’apertura alare di un metro e ottanta, fuori dalla norma rispetto alla sua altezza. Inoltre, la sua produzione di acido lattico, la metà rispetto alla media di un atleta, lo porta a sentire meno fatica. Queste sono caratteristiche che oggettivamente (al contrario del livello di testosterone) hanno reso l’atleta più avvantaggiato a livello biologico; ciononostante, non è mai stata richiesta la sua espulsione dalle competizioni; le sue caratteristiche genetiche sono sempre state considerate una benedizione, che tuttavia non sussumevano il merito dell’atleta, e nessuno ha mai richiesto che si sottoponesse a trattamenti medici volti ad aumentare il suo livello di acido lattico.

Il binarismo di genere declinato nelle competizioni sportive cerca di districarsi nelle contraddizioni di un criterio che non è nemmeno scientificamente oggettivo rispetto ai vantaggi che può generare in ambito sportivo, imposto attraverso dinamiche transfobiche e razziste.

Le vicende di Khelif, Williams, Semenya, Negesa, possono contribuire a portare alla luce le radici ideologiche del binarismo patriarcale e suprematista bianco.

Nel frattempo, non è possibile deresponsabilizzare il gesto della poliziotta italiana Carini, nonché volto del Centro Fiamme Oro nel parco verde di Caivano rilanciato dal governo Meloni, che ha attivamente sfruttato e fomentato l’odio transfobico delegando le cause della sua sconfitta ad un’ingiustizia insita nell’incontro.

Opinioni apparentemente condivise dalla nuova sfidante di Khelif, l’ungherese Luca Hamori, che in queste ore sta facendo circolare immagini agghiaccianti sui social, che la mostrano battersi sul ring con un essere abnorme e mostruoso, identificato in Imane Khelif, o che definiscono ancora l’atleta algerina “un uomo”, celebrando al contrario la propria femminilità vestita di rosa. Difficile non vedere in ciò una logica simbolica allineata con Orbán, il quale descrisse prontamente la cerimonia di apertura delle olimpiadi attuali la rappresentazione di un Occidente “senza più morale”.

Mentre lo sport dovrebbe rimanere indipendente e popolare, non sorprende che la sorveglianza dei corpi si amplifichi proprio nell’istituzione globale ed elitaria delle olimpiadi. Sorveglianza che si configura come un disperato tentativo di contenere l’inevitabile crisi di un sistema binario, per sua natura coloniale, inadatto a leggere le forme umane, ma che continua tuttavia ad ostentare la prepotenza indubbiamente fascista di legittimare determinati corpi in certi spazi, il tutto dietro una performativa facciata di empirismo scientifico ed equità sportiva.

-Di Sole Zagnoni, Margherita Busson (Collettivo Squeert)

-Da Globalproject.info