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LA CREAZIONE DELL’UOMO – MASSIMO DE FILIPPI

Tratto dal libro ” Questioni di specie” di Massimo de Filippi

Capitolo II: La creazione dell’Uomo

Che cos’è l’uomo se esso è sempre il luogo – e, insieme, il risultato – di divisioni e cesure incessanti?
Giorgio Agamben L’Uomo – con la «u» maiuscola e declinato al maschile – è al centro di un’infinità di discorsi che vanno dalla filosofia alla scienza, dalla religione alla politica, dalla morale all’estetica. Basta prestare un po’ di attenzione e ovunque sentiremo risuonare espressioni quali «i diritti dell’Uomo», «la storia e i destini dell’Uomo», «il progresso dell’Uomo», «la morte dell’Uomo», «il benessere e la salute dell’Uomo», «la bellezza dell’Uomo», «la sacralità dell’Uomo», ecc. In pochi, però, si sono presi la briga di dirci chi sia quest’Uomo onnipresente, quando e come sia nato e come abbia raggiunto l’onnipotenza e l’onniscienza che paiono appartenergli a pieno titolo. Di seguito proveremo a mostrare come l’insistenza con cui l’Uomo viene evocato nei contesti più disparati sia legata a doppio filo alla rimozione/forclusione dell’Animale (anch’esso con la «a» maiuscola, ma declinato al neutro); in altre parole, come la creazione dell’Uomo rappresenti la controparte ideologica di quanto discusso nel capitolo precedente. Horkheimer e Adorno sono stati sicuramente tra quelli che hanno colto con maggiore chiarezza il fatto che nella nostra cultura, l’Uomo si è sempre compreso come antitesi dell’Animale. Non a caso, tra le dicotomie gerarchizzanti più nette e più costantemente ripetute, si trova quella che sorge e si sviluppa dalla ricerca spasmodica – puntigliosa e spesso grottesca – della differenza in grado di separare in maniera inequivocabile l’Uomo dall’Animale. I tratti costitutivi di tale differenza fondante e fondamentale si sono modificati storicamente, ma il volto dell’Uomo, come dovremmo aver imparato dal lavoro di Foucault, ha assunto le fattezze attuali soprattutto a partire dal XVII secolo con l’instaurazione dei moderni stati nazione europei – con le loro guerre e la loro espansione coloniale –, con lo sviluppo del pensiero e delle tecnologie biopolitiche e con il successo delle teorie neuro-psico-politiche della degenerazione individuale e sociale che hanno portato al consolidamento delle figure del criminale, del folle, dell’anormale e del mostro, ossia delle vite infami da sorvegliare e punire, da internare e curare, secondo l’imperativo Bisogna difendere la società. Altrettanto certo, però, è che un contributo decisivo alla creazione dell’Uomo sia stato offerto anche dal pensiero sviluppatosi dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale come risposta ai processi di animalizzazione messi in atto dal regime hitleriano. Per far sì che l’orrore nazista non avesse modo di ripetersi, questo pensiero – sostenuto dai risultati della Nuova sintesi in biologia, risultati che provavano in maniera definitiva l’inesistenza delle razze umane – si è infatti impegnato ad approfondire il solco abissale che già separava l’Uomo dall’Animale. Mossa sicuramente lodevole e generosa ma che ha ribadito la svalutazione dell’Animale e quindi, paradossalmente e contro le sue stesse intenzioni, ha mantenuto aperta quella porta che intendeva chiudere per sempre – la storia successiva, purtroppo, si è incaricata di confermare quanto detto con il succedersi sempre più frequente di fenomeni di animalizzazione su larga scala.
In breve, la modernità, grazie a una serie di eventi molto diversi tra loro sia sul piano etico sia su quello politico, ha portato a compimento, più o meno consapevolmente, il costrutto filosofico e scientifico di umanità, intesa come la somma di individui così uguali tra loro da essere sempre intercambiabili e sostituibili. Tale costrutto, che sarebbe apparso poco comprensibile in contesti culturali differenti e in altre epoche, non ha mai cessato di far sentire i propri effetti deleteri anche in ambito intraumano. Ripetiamolo: finché esisterà la Bestia, la bestialità dell’Uomo non potrà che continuare a rialzare la testa.
La creazione dell’Uomo non è comunque opera della sola modernità e non sarebbe stata possibile nella forma che conosciamo senza la progressiva accumulazione, in processi di lunga durata, del capitale di svalutazione reificante dell’Animale, della sua trasformazione in cosa. Questi processi sono verosimilmente iniziati nel Neolitico con l’abbandono del nomadismo e la costituzione dei primi insediamenti umani di una certa dimensione, la cui organizzazione ha comportato, tra le altre cose, la divisione/specializzazione del lavoro e la nascita di classi improduttive (governanti, funzionari, guerrieri e sacerdoti). L’accresciuta complessità sociale, altamente dispendiosa da un punto di vista energetico, ha necessariamente richiesto, per poter reggere il suo stesso peso in continuo aumento, un supplemento di risorse che è stato «estratto» dal lavoro degli schiavi e delle classi subalterne, dallo sfruttamento intensivo dell’ambiente grazie allo sviluppo dell’agricoltura e
dalla domesticazione degli animali. Lo sfruttamento e la messa a morte di esseri così simili all’Uomo – schiavi umani e animali – ha comportato, a sua volta, la necessità di elaborare ideologie che trasformassero decisioni politiche in presunti fatti di natura, assegnando a ogni gruppo un posto ben preciso e indiscutibile lungo la cosiddetta scala degli esseri.
La storia non si è fermata al Neolitico e altri eventi hanno contribuito al fenomeno che stiamo analizzando. Oltre a quelli già evidenziati, vanno ricordati per la loro importanza almeno la diffusione a livello globale delle religioni monoteiste (il cui Dio, creato a immagine e somiglianza dell’Uomo, consegna all’Uomo la signoria sull’intero vivente), l’Umanesimo e il Rinascimento (con la loro enfasi sull’Uomo fatto ascendere alla posizione di osservatore divino completamente sganciato dal resto del mondo naturale) e la rivoluzione industriale e tecno-scientifica (che ha messo a disposizione gli strumenti – dalle catene di (s)montaggio alle celle frigorifere, dal produttivismo fordista ai sistemi di trasporto – che hanno reso possibile la crescita esponenziale del consumo di corpi animali fino alle cifre riportate nel capitolo precedente). Al di là dell’individuazione degli snodi storici che hanno reso possibile l’attuale condizione animale, è forse più importante sottolineare che questa ha subito profonde modifiche quantitative e qualitative dettate non solo da cambiamenti del clima ideologico ma anche, e soprattutto, dallo sviluppo di sistemi di distruzione di massa sempre più efficienti e meccanizzati. Anzi, come cercheremo di precisare nel prosieguo di questo libro, sono le condizioni materiali di sfruttamento che necessitano dell’elaborazione di un’ideologia che le legittimi e non quest’ultima – non si sa bene come – a innescare ex nihilo le prime. In ambito umano, questo è ormai riconosciuto: prima nasce il razzismo e poi si inventano le razze, prima si instaura il patriarcato e poi si naturalizzano/normalizzano i generi. Tornando alla questione animale, è ragionevole pensare che sia all’opera un meccanismo analogo: lo sfruttamento degli animali, così necessario al mantenimento di società sempre più «energivore», ha richiesto che tra «noi» e «loro» venisse inserita un’incolmabile distanza materiale (tramite una ferrea distribuzione degli spazi di vita: gli umani nella polis e nelle sue varie propaggini e gli animali nelle enclosure o in «natura») e simbolica.
È alla luce della necessità di sancire un distanziamento simbolico tra l’Uomo e l’Animale, a sua volta indispensabile per consentire lo svolgimento indisturbato delle pratiche di smembramento, che il proliferare delle versioni storico-politiche della differenza Uomo/Animale diventa meno sorprendente e innocente di quanto possa apparire a prima vista. Tale differenza è stata declinata sia in negativo sia, più frequentemente, in positivo. In negativo: l’Uomo è un animale senza zanne e senza artigli che ha dovuto costruire eroicamente (antropopoieticamente, direbbero alcuni, per occultare la componente militare e coloniale di questa operazione) il proprio habitat culturale,
separandosi progressivamente dalla «violenza» ritenuta connaturale al resto del vivente animale. In positivo: l’Uomo è un animale con qualcosa in più. E qui l’elenco delle differenze ontologiche fondamentali (spesso in contraddizione tra loro) è pressoché infinito: l’Uomo è l’unico animale dotato di anima, di linguaggio, della ragione; l’unico animale con la capacità di realizzare azioni politiche o morali; l’unico animale in grado di utilizzare strumenti, di celebrare riti funebri, di anticipare la propria morte; l’unico animale che ride o l’unico animale che piange; l’unico animale che danza, che compone musica, che scrive, che risponde, che prova empatia, che sogna, che sa far di conto; l’unico animale simbolico, storico, ecc.
Tuttavia, più che la lunghezza dell’elenco e la grottesca bizzarria di alcune delle sue voci, sono gli aspetti seguenti quelli che dovrebbero colpire maggiormente: 1) l’idea secondo cui esisterebbe un tratto presente, senza eccezioni, in tutti gli umani e assente, senza eccezioni, in tutti gli altri animali – divisione alquanto improbabile, soprattutto alla luce delle acquisizioni della biologia darwiniana e post-darwiniana che mostrano come le specie si differenzino per grado (distribuzione differenziale di capacità e caratteristiche condivise) e non per genere (la capacità o la caratteristica è presente o è assente); 2) la qualità psicocentrica dei tratti scelti per tracciare la linea di confine; 3) l’ostinazione con cui non si è mai smesso di cercare, con poche prove e molti errori, la differenza definitiva e incontrovertibile.
Prima di spiegare perché questi tre aspetti dovrebbero insospettirci, vale la pena presentare qualche esempio illuminante dell’indefessa epopea intrapresa dall’Uomo alla ricerca del Sacro Graal dell’Uomo. Il primo: l’Uomo è l’unico animale capace di utilizzare strumenti. Poi si scopre che (almeno) molte altre scimmie li utilizzano. Crisi e nuova definizione: l’Uomo è l’unico animale capace di utilizzare strumenti per produrre altri strumenti. Il secondo: l’Uomo è l’unico animale dotato di linguaggio. Poi si rapiscono scimpanzé e gorilla, li si segrega in laboratori di sperimentazione e si insegna loro il linguaggio dei segni dei sordomuti. Lo imparano e, addirittura, lo insegnano ai loro figli nati in cattività. Stupore, qualche pubblicazione scientifica sensazionalistica e poi la smentita: in fondo, si tratta di pochi esemplari, chi ci dice che tutti gli scimpanzé e tutti i gorilla siano davvero così intelligenti come quelli che si sono potuti «studiare»? Questi esemplari, poi, hanno imparato un numero limitato di segni e la loro sintassi è quantomeno rudimentale. Inoltre, come facciamo a sapere che non stiano semplicemente imitando gli sperimentatori senza comprendere appieno il significato di ciò che stanno «dicendo»? Il terzo: Hans, il cavallo che sapeva contare. Hans batteva lo zoccolo un numero di volte pari al risultato delle operazioni aritmetiche che gli venivano richieste di eseguire. Hans suscita scalpore e richiama intorno a sé schiere di ricercatori decisi a risolvere il mistero che avvolge questo caso a metà tra la curiosità scientifica e il fenomeno da baraccone. E, ovviamente, il mistero viene dissipato: Hans non conta, ma intuisce dagli impercettibili cambiamenti della mimica dell’umano che lo mette alla prova quando è il momento di smettere di battere lo zoccolo. Quindi, rassicuriamoci, i cavalli non sanno far di conto! Che, invece, sappiano leggere molto meglio di noi il linguaggio extra-verbale è faccenda poco rilevante e non
degna di essere menzionata: non era questo ciò che si voleva dimostrare!
Forse, però, ancora più istruttiva è la vicenda narrata da Raymond Corbey perché, inserendosi appieno nel paradigma darwiniano («più/meno» e non «sì/no»), mostra quanto l’antropocentrismo sia inscritto fin dentro le pieghe più intime della nostra carne. La vicenda in questione è, in poche parole, il susseguirsi spasmodico di una serie di progressivi «aggiustamenti empirici» che hanno consentito, nonostante le prove contrarie, di poter continuare a sostenere l’assioma ideologico dato per scontato ancora oggi. Eccone i dettagli. L’assioma aprioristico: l’Uomo è l’animale più intelligente.
L’assunzione acritica: intelligenza è sinonimo di capacità argomentative e razionali e non certo, ad esempio, dell’abilità di rendersi «invisibili» agli occhi dei predatori, di ritrovare la strada di casa nell’intrico di una giungla o di modificare, muovendo le ali, la rotta di volo a seconda delle correnti ascensionali; ossia, l’intelligenza di cui si parla è già e solo quella dell’Uomo. Aggiustamenti empirici: l’Uomo è l’animale più intelligente perché ha il cervello più grande. L’espansione coloniale, però, porta l’Uomo a incontrare sempre più frequentemente animali, ad esempio balene ed elefanti, con cervelli di maggiori dimensioni del suo. Il sistema entra in crisi e bisogna correre ai ripari. Ecco allora che l’Uomo diventa l’animale più intelligente perché dotato del più elevato rapporto tra massa cerebrale e massa corporea. Sfortuna volle che un animale vissuto fino ad allora nell’ombra raggiungesse gli onori della ribalta: l’animale con il «migliore» rapporto cervello/corpo è, udite, udite, il topo-scoiattolo! Nuova crisi e, senza perdersi d’animo, nuova correzione: l’Uomo è l’animale più intelligente perché caratterizzato da una «migliore» allometria (ossia da un rapporto più efficiente tra dimensioni relative degli organi e prestazioni fisiologiche o comportamentali). Ma in questo caso sono i delfini a soffiare, da vicino, sul collo dell’Uomo. Delfini immediatamente costretti alla resa dall’introduzione di una nuova correzione basata sui tassi metabolici. Morale della storia: avanti così, senza vergogna, purché si continui a ribadire l’eccezionalità dell’Uomo.
Gli esempi riportati – che sarebbero esilaranti se non fossero essenziali al mantenimento dell’orrore descritto nel capitolo precedente – non sono fenomeni bizzarri e isolati come dimostra il modo in cui la nostra specie si è autodefinita: Homo sapiens. La scelta di una simile denominazione è tutto fuorché il risultato di un meticoloso e neutro lavoro di sintesi dei caratteri di un determinato gruppo di animali. La definizione Homo sapiens, insomma, non è una descrizione innocente, ma il risultato prescrittivo di una tagliente operazione di appropriazione colonizzante di ciò che con la stessa mossa viene escluso. Innanzitutto domandiamoci: perché il sostantivo, sessuato e sessista, Homo? Così facendo non si sta implicitamente escludendo e sottomettendo almeno la metà dei membri di questa specie? E poi perché l’aggettivo, pretestuoso e presuntuoso, sapiens? Si sta affermando che sì, siamo animali, ma così particolari, unici e superiori che nel momento stesso in cui fingiamo di sottometterci alla classificazione linneana degli esseri in realtà ce ne stiamo smarcando definitivamente? Adesso siamo nella condizione di poter rendere conto del perché i tre aspetti sottolineati in precedenza dovrebbero quantomeno essere guardati con sospetto. Essi dovrebbero attirare la nostra attenzione critica perché denunciano in maniera lampante la malafede e l’artificiosità della costruzione della barriera Uomo/Animale, barriera che si consolida proporzionalmente alla sua capacità di dileguarsi in una presunta naturalità, di spacciarsi per la mera presa d’atto, neutra e asettica, di una «realtà esterna» tanto naturale quanto immodificabile. Zoomando sulle narrazioni intorno all’unicità dell’Uomo, non sarà difficile, come già accennato, vedere delinearsi nella loro
trama una falla gigantesca: chi classifica è così interessato al «risultato» della sua classificazione da averlo già in mente prima di «scoprirlo». Ecco allora spiegata la scelta apparentemente innocente del metro di misura: tratti psichici o cognitivi già fortemente caratterizzati in senso umano. Ecco la ragione della pervicacia con cui viene tracciata e continuamente ritracciata la linea di confine quando nuove osservazioni empiriche la mettono in discussione e la fanno vacillare.
La creazione dell’Uomo come differenza dall’Animale, al pari della questione animale, ha più a che fare con la politica che con la biologia. Dicendo questo, ovviamente e come articoleremo meglio in seguito, non si intende affermare che non esistano tratti biologici differenti tra le varie singolarità animali – tratti che comunque non si distribuiscono in maniera rigidamente binaria secondo una logica «tutto o niente» –, ma che tali tratti diventano eloquenti solo all’interno di una cornice normativa – simbolica e materiale – già data. Cornice caratterizzata dalla strabiliante capacità di sapersi rendere invisibile, trasformandosi in legge di natura («È così e non può che essere così»), nel momento stesso in cui sancisce le modalità «normali» di pensare, vivere e relazionarsi. Questo dovrebbe far drizzare le orecchie almeno a chi ha compreso in ambito intraumano la forza oppressiva, discriminante e gerarchizzante del valore socio-politico assegnato a caratteristiche biologiche di per sé neutre: il colore della pelle o l’essere portatore o portatrice di pene o di vagina, per citare due tra gli esempi più tristemente noti. Quando si capisce che l’acribia grottesca con cui non si è mai smesso di tracciare la fatidica linea di separazione tra l’Uomo e l’Animale è – né più né meno – una vera e propria operazione di pattugliamento dei confini, non ci si può che domandare: a chi serve tutto questo? A questo punto, la risposta dovrebbe essere immediata: è utile a chi vuole produrre utili.
Una volta riconosciuta l’artificiosità strumentale della divisione Uomo/Animale, la questione animale, da cui siamo partiti, si allarga, si approfondisce e assume, se possibile, tinte ancora più fosche. L’Uomo di cui stiamo parlando – e che fino a qui è apparso in maniera poco definita – è, infatti, «qualcuno» che possiede delle caratteristiche ben precise: è maschio, bianco, eterosessuale, cristiano, adulto, abile, sano e proprietario. L’Uomo che si distingue dall’Animale non è l’insieme di tutti i membri della specie Homo sapiens; al contrario, è un ventre molto selettivo ed elitario che si alimenta di ciò che esclude; è l’espressione, tanto invisibile quanto categorica, di un sistema di
classificazione gerarchizzante che opera, rimuovendo l’Animale, non solo fuori ma anche dentro la nostra stessa specie. Del pari, l’Animale (ciò che viene rimosso) è a sua volta un altro mostruoso singolare collettivo composto non solo dall’insieme dei non umani (dalle pulci agli scimpanzé), ma anche dai resti sezionati di uteri e vagine, di ani e movenze sinuose, di «stupidità» e «arretratezza», di deliri e follie, di balbettamenti e vulnerabilità, di emozioni e corporeità, di sentimenti e compassione, di pulsioni e inconscio. Animale che, come discuteremo più avanti, non è semplicemente escluso, ma escluso e appropriato poiché costruito appositamente per definire il margine esterno dell’Uomo, la sfera dell’abietto da cui, per contrapposizione, l’Uomo può stagliarsi e prendere forma.
Questa è una componente essenziale delle operazioni che, nel corso della storia, hanno legittimato e reso possibile il perpetuarsi della discriminazione, dell’oppressione e dello sterminio di infinite moltitudini di umani. Operazioni che, naturalizzandoli, trasformano i processi materiali di animalizzazione in fenomeni di speciazione, ossia nella produzione di nuove specie di umani subumani che, in quanto tali, possono essere trattati alla stregua degli animali. Il che mette in evidenza almeno quattro aspetti strettamente correlati su cui vale la pena di soffermarsi. Il primo: la dicotomia Uomo/Animale è politicamente rilevante non solo per l’orrore che comporta, ma anche per il fatto che tutte le dicotomie gerarchizzanti che strutturano il nostro assetto sociale (uomo/donna, eterosessuale/omosessuale, bianco/non-bianco, ecc.) prevedono la subordinazione di un termine all’altro in quanto il secondo si avvicina così pericolosamente all’Animale da potervi coincidere: la separazione Uomo/Animale, che piaccia o meno, interviene in tutte le cesure che continuano a sezionare il corpo ritenuto indivisibile dell’umanità. Il secondo: l’equiparazione all’Animale è parte tutt’altro che secondaria dei meccanismi di trasformazione di singolari collettivi discriminanti e oppressivi (il Negro, l’Ebreo, l’Islamico, il Frocio, la Lesbica, il Selvaggio, il Migrante, ecc.) in vuoti a perdere: l’intersezione tra stigma sociale e animalizzazione è spesso, se non sempre, l’anticamera della fine. Il terzo: il confine Uomo/Animale è più o meno permeabile a seconda della direzione di attraversamento. La permeabilità della barriera è pressoché nulla dall’Animale all’Uomo ed elevatissima dall’Uomo all’Animale nel momento in cui specifiche contingenze, il più delle volte di natura economica, scatenano e legittimano eventi di speciazione che relegano interi gruppi di umani nella sfera dell’Animale. È necessario ripetere che questa differenza di permeabilità è indice del fatto che la barriera Uomo/Animale è politica e non biologica? È necessario sottolineare, per fare un esempio drammaticamente attuale, che i confini su cui si infrangono le vite dei migranti sono regolati da un analogo gradiente di «porosità», completamente permeabile per europei e nordamericani e assolutamente impermeabile per quasi tutti gli altri? Il quarto: le responsabilità del massacro animale sono distribuite in modo molto differente tra i membri della specie Homo sapiens. Non esiste una «specie padrona», ma Umani padroni. Come è possibile considerare la questione animale in un tale vuoto pneumatico tanto da non riuscire più a fare distinzione tra le vittime umane di questo sistema economico-sociale – quelle che in questo stesso momento stanno morendo dopo essere state animalizzate – e i veri carnefici?
Breve parentesi: l’Uomo non si è mai definito come differenza dalle piante. La società umana non si è mai edificata sull’esclusione dei vegetali e nessun gruppo umano ha mai subito speciazioni vegetalizzanti. Da qui l’urgenza politica della questione animale che, ovviamente, non corrisponde a porre il mondo vegetale al di fuori di ogni forma di considerazione morale o a dimenticarsi della forza distruttiva che l’agricoltura industrializzata esercita sui viventi. Con questa parentesi, si spera di aver risposto in maniera convincente alla fatidica domanda che fa invariabilmente la sua comparsa non appena si accenni alla sofferenza animale: «Perché gli animali sì e le piante no?». Quanto detto ci permette di articolare ulteriormente il compito politico dell’antispecismo. Se altre elaborazioni teoriche e altri movimenti hanno decostruito e continuano a decostruire gli attributi dell’Uomo (il femminismo la presunta supremazia naturale dell’essere maschio, il queer quella
dell’eterosessualità e del binarismo di genere, il postcolonialismo quella della bianchitudine, ecc.), l’antispecismo, per realizzare le proprie potenzialità dirompenti ancora per gran parte inespresse, dovrebbe intraprendere un analogo corpo a corpo con il sostantivo, l’Uomo, che regge la serie di aggettivi ricordata in precedenza. Ecco così delinearsi gli obiettivi politici di un antispecismo che mantenga le sue premesse e le sue promesse: la liberazione animale, la liberazione umana e la liberazione dell’animalità che, volenti o nolenti, percorre da parte a parte anche gli umani più paradigmatici e «normali». In effetti, a ben pensarci, è impossibile disgiungere questi movimenti di liberazione se non altro perché – suonerà banale, ma ce ne dimentichiamo spesso e volentieri – noi siamo corpi animali vulnerabili che offrono al potere e al dominio gli stessi punti di presa di quelli degli altri animali. L’indissolubilità dei processi di liberazione dei corpi non è, allora, il risultato
della meschina ricerca di alleanze fittizie o del persistere di un sottaciuto antropocentrismo che fa rientrare dalla finestra ciò che aveva fatto uscire dalla porta, ma una presa d’atto risolutamente materialista, laica e sovversiva. Questo punto è talmente centrale che non sarà mai enfatizzato abbastanza: la questione animale non è estranea alle questioni umane – come credono alcuni che la derubricano a preoccupazione borghese – ed è sempre più necessario, alla luce della moltiplicazione distraente dei discorsi intorno agli animali di cui parleremo in seguito, marcare la distanza tra questo antispecismo e l’animalismo mainstream che non solo pretende spesso di escludere gli umani dall’interesse del movimento di liberazione animale, ma che addirittura accusa di criptoantropocentrismo chi sostiene l’inestricabilità delle condizioni di Potere/dominio e delle lotte di liberazione.
Se davvero abbiamo ancora voglia di parlare di religioni è l’antropocentrismo a configurarsi come tale. Come sottolinea Agamben, l’etimologia del termine religio ha a che fare con l’ininterrotta e puntigliosa opera di separazione tra ciò che è sacro e ciò che non lo è. Se quanto si è detto finora non è completamente privo di senso, antropocentrismo è sinonimo di antropolatria: l’irrazionale e nefasta esaltazione delle magnifiche sorti e progressive dell’Uomo, di fronte ai cui altari sacrificali – da dove si alzano in volute di fumo e di incenso il resto e i resti dei viventi – tutti gli uomini di buona volontà devono inginocchiarsi in devota adorazione.